20/02/09

Herbert Achternbusch

Herbert Achternbusch

(Articolo ad opera dell'amico Simone Buttazzi comparso sul suo blog, che consiglio caldamente a tutti i cinefili, Unwort)


"Ma adesso devo ancora chiarire perché faccio film. Per il fatto che sono un comico della religione. È l’oscura sensazione di paura che mi spinge a fare immagini in movimento. Questo timore non può accettare barriere né monetarie né di qualunque altro genere. Questa paura è talmente viva, come se l’oscurità fosse quasi un regno intermedio. Come se, visto da casa, tutto fosse luminoso e la zona oscura esistesse unicamente per permettere alla paura di creare le sue immagini. Si può tranquillamente immaginare tutto ciò come il cinema, la sala cinematografica, riferita a noi stessi. Quando ancora non esisteva il cinema si faceva religione: altrettanto oscura, familiare, variopinta e vivace, e le combinazioni fantastiche erano possibili come lo sono oggi al cinema".

In data 16 gennaio 1993, Herbert consegna queste e molte altre righe alla «Süddeutsche Zeitung». Trattasi di un testo d’occasione. L’occasione è il ricevimento del ghiotto Münchner Filmpreis, piccolo oscar alla carriera bavarese. Herbert è nato a Monaco, bavarese è e bavarese si considera. In quanto regista, oltre che bavarese, nell’articolo battuto a macchina per il prestigioso giornale Herbert si chiede ma io, cineasta bavarese, dove mi colloco. Che ruolo ho. Poco ma sicuro, bofonchia Herbert in incipit di articolo, non appartengo alla storia del cinema. Difficile dargli torto. Nella rosa di nomi del Nuovo Cinema Tedesco il suo non compare mai. Eppure c’era, eccome. Il primo film di Herbert Achternbusch trasmesso da una televisione tedesca entrò in palinsesto proprio nel 1993, a seguito della piccola onda anomala originata dal premio. Niente male, visto che la sua produzione di celluloide decolla nel 1974. Nel 1983, all’apice del suo estro di cineasta, Herbert licenzia Das Gespenst (Lo spettro), film in bianco e nero in cui interpreta il quarantaduesimo Gesù Cristo, omuncolo malconcio e verboso. L’allora Ministro degli Interni della Repubblica Federale Tedesca, Zimmermann, fresco di nomina, ritenne che il film fosse lesivo e offensivo nei confronti del comune sentire e di chi in Cristo ci credeva davvero. Come i bavaresi. Da quel momento in poi Herbert si trovò spesso costretto a girare in super 8, perché lo stato chiuse i rubinetti da un giorno all’altro. Il livore di Zimmermann andò ad aggiungersi a quello della potente CSU di Strauss (e poi di Stoiber), che aveva già messo Herbert in cima alla lista nera. Ma come poteva lamentarsi Herbert, il cui editore è sempre stato Suhrkamp, che è come dire Feltrinelli? Si lamentava. Soprattutto quando l’editore Suhrkamp si rifiutò di pubblicare il testo Es ist ein leichtes, beim gehen den Boden zu berühren (È roba da nulla calpestare il terreno coi piedi quando si cammina) pensato dall’autore come introduzione – eh, un po’ malandrina! – alla raccolta dei suoi testi teatrali, anno 1991. No, gli disse l’editore. Questo testo non va. Ci pensa il curatore a lisciarti il pelo. Herbert, il pelo, se lo voleva strappare a morsi. Il pelo proprio e quello altrui. Valga tuttavia come consolazione, oltre al premio del 1993, la causa vinta due anni prima per sbloccare Das Gespenst. Dopo otto anni di processo, i giudici dichiararono il film non osceno e distribuibile in sala. Anche in Baviera.

Herbert Achternbusch nasce Schidl nell'autunno del 1938 e cresce insieme a genitori adottivi. Durante la sua formazione sguazza in ogni pozza dell’umanesimo, maturando una discreta ossessione per la scrittura e per le arti figurative. Allo scoccare degli anni ’70 un’idea in testa, chiara, ce l’ha. Non vuole diventare un artista di settore. Vuole fare tutto. Tutto in una volta. Gli andrà bene inizialmente con la letteratura. Il 1971 è l’anno del suo primo romanzo, pubblicato come il resto della sua produzione dalla suddetta Suhrkamp. Herbert è un grafomane con una propensione per le pagine di testo pieno, niente pause niente rientri. Monoliti neri di lettere. Dopo alcuni racconti fluidi ma privi di trama, di fatto degli esperimenti di scrittura automatica, Herbert trova quella che sarà la sua cifra di scrittore – da libro, da film e da palcoscenico. Come una spugna, l’Io narrante (imperante) assorbe tutto ciò che lo circonda, lo ibrida con fragili collegamenti e robuste digressioni e finisce per intessere tutto in una trama autobiografica che strizza il materiale narrativo come fa la corda con gli affettati. Quando scrive, Herbert non butta via niente. Né perde per strada una verve, di fatto un incazzo, che i suoi occhi fisici - invece - non tradiscono mai.

A muovere il polso di Herbert intervengono un amore e un odio. L’amore è per l’arte in ogni sua forma meglio se utopica e fanciulla, perché ancor più salvifica. L’odio, o meglio un amore più difficile da coltivare, è quello per la sua terra, la Baviera, bavaresi compresi. Un odio coltivato volontariamente in loco perché, dice Herbert, un po’ li conosco, un po’ me lo posso permettere. Herbert non ha mai lasciato il suo Land. Si è solo trasferito in campagna, al confine con l'Austria, dove si sente a suo agio. Non ha fatto, per intenderci, come il suo amico sfrombolone Werner Herzog, col quale scrisse la sceneggiatura di Herz aus Glas (1976), film in cui la logica, sospesa come l’incredulità, apre a eventi e maravigliose visioni incomprensibili ma tutto sommato coerenti. Non ha fatto come lui, che ha lasciato la Germania e ha cercato per il mondo il fiore dai mille colori. Herbert è rimasto lì, serpe in seno, Nestbeschmutzer, comico impossibile. Perché “della religione”, e perché tedesco.

I modelli di Herbert sono il monacense Karl Valentin, figura chapliniana di inizio secolo che contribuì a (re)inventare il nonsense; Buster Keaton, di cui ha sempre apprezzato la malinconia, l’inespressività e i concatenamenti macchinici dei gag; Woody Allen, perché, dice Herbert in un’intervista, riesce sempre a fare quello che vuole, e una volta l’anno. Fermo dal 2002, per ventotto anni anche lui ha fatto più o meno tutto quello che voleva fare, con ritmi stacanovisti. Ha irriso il concetto di Vergangenheitsbewältigung (la rielaborazione del proprio passato: concetto chiave nella cultura tedesca del dopoguerra), mettendo in luce l’ipocrisia e il tocco spesso assai lieve delle sue attuazioni. Ha lottato come un leone contro la propria rimozione – null’altro che dimenticanza pepata col dolo – sfidando la terra bruciata fattagli attorno dallo stato, dal Land e dagli addetti alla cultura. Per reazione, nei suoi film si è ucciso più volte dell'Harold di Harold e Maude. Suicida nell’acqua dell’oceano e nel fuoco dei vulcani, morto ammazzato o colto da improvviso coccolone. Stratagemma, questo, apotropaico e sornione, il cui fine è scoperto come i suoi travestimenti da scribacchino o da papa, da Picasso o da soldato, da poliziotto o da idiota. (differenza, quest’ultima, che Herbert non ha mai colto). Se è mossa apotropaica e ridanciana quella di eliminarsi, è invece pretesto puro, di volta in volta, la recitazione. Non ci crede nessuno. Come per Nanni Moretti, l’unico intento di Herbert è quello di procedere a una sovraesposizione che funga da autoanalisi.

Nel documentario Das Schaf im Wolfspelz (1990, di Walter Smerling: la pecora vestita con la pelle di lupo), lui, l’Artista eclettico e maledetto, i cui pochi film pubblicati sono appartenuti per anni al mondo delle VHS, l'iconoclasta che può vantare più querele che retrospettive, ecco, lui, il genio bavarese avente alle spalle un Gesamtkunstwerk di proporzioni (e ambizioni) quasi wagneriane è un uomo tranquillo e civile, innamorato della campagna e degli animali esotici che ritrae ossessivamente nelle sue tele. Gira con l’eterno cappello calato sulla capa, parla lentamente, prepara il tè. Ogni tanto accompagna i suoi quadri in giro per le gallerie. Ogni tanto, come nel 2004, lo commemorano a metà. Nell’ambito della mostra Grotesk! allestita negli spazi della Haus der Kunst di Monaco è stato possibile vedere molti manifesti dei suoi film e uno di questi, addirittura, veniva proiettato in loop e su grande schermo. Era Der junge Mönch (1978), storia di un monaco imbecille che diventa papa. Peccato che al momento di mandare il catalogo in stampa si siano dimenticati di lui, nel senso che il volumone uscì senza alcun accenno a Herbert. Venne tuttavia approntato un quartino frettoloso con un paio di immagini tratte dai suoi film, da inserire nei cataloghi a mo’ di ammenda. Un errata corrige fuori tempo massimo vale o non vale più di una condanna. Domanda.

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Di recente è uscito un cofanetto con cinque film diretti da Achternbusch. Un esordio importante e mostruosamente tardivo sul mercato del cinema digitale. In questa sede, prendo in esame a mia volta cinque film del regista tedesco, tra i più rappresentativi della sua vasta filmografia.

Das Andechser Gefühl, 1974

Di fatto un mediometraggio, il primo film di Herbert reca già tutti i tratti della sua produzione successiva. Ambientato in un paesello della profonda Baviera tra Biergarten, laghi e anguste case private, il film vede protagonista Herbert in compagnia di Margarethe Von Trotta, destinata di lì a poco a una fulminante carriera registica. Il sentimento di Andechs, questo il titolo, sta a indicare quello stato di gioia in cui non si è mai soli ed è bel tempo, come in vacanza – o come in Italia, che il tedesco medio vede come supremo luogo di vacanza e di scorpacciate inaudite. Per Herbert, umile insegnante elementare e uomo sposato, questo sentimento è incarnato dalla donna dei suoi sogni (la Von Trotta) che si palesa improvvisamente in paese e getta scompiglio. La macchina da presa è fissa, i personaggi immobili, seduti davanti a una birra, sguardo perso nel nulla – salvo sbottare in aforismi surreali o monologhi degni del teatro di Racine… o di Achternbusch, che in più di un’occasione farà recitare davanti alla macchina da presa lunghi frammenti dei monologhi al femminile tipici del suo teatro. A fare da spalla a Herbert intervengono figure grottesche come il baffuto Heinz Braun, che pare balzato fuori da vecchie strisce come Max und Moritz o Vater und Sohn. Ferma restante (per l’appunto) la fissità dell’insieme, nel film s’incastonano giochi di parole e gag ispirati alla tradizione del teatro comico tedesco (Karl Valentin) o all’ingegnosa ineffabilità di Tati. La volontà di dare un segnale di stile molto forte cozza spesso con svarionate dilettantesche, mentre il campionario umano (quasi una carrellata felliniana) scorre senza alcuna, apparente ansia di raccontare una storia, analogamente alle scene. Di fatto, affastellate. La sequenza finale mischia il tardo Buñuel col primo Moretti. Herbert, che malsopporta la sua famiglia, improvvisa un matrimonio con la donna dei sogni, complice un prete di passaggio per reclamare una tazza (con Gesù Cristo disegnato sopra) che gli viene negata. Il prete si siede, mangia e se ne va attraverso il giardino, in campo lungo. La moglie accoltella Herbert. La bella donna se ne va in macchina così com’era venuta.

Die Atlantikschwimmer, 1975

"Du hast keine Chance, aber nutze sie!" Non hai alcuna chance, ma sfruttala – urla Herbert vestito da donna prima di buttarsi a mare. I nuotatori dell’Atlantico è la storia di due perdigiorno che decidono di attraversare l’oceano a nuoto perché un supermercato regala 100.000 marchi a chi riesce nell’impresa. Prima cosa da fare: imparare a nuotare. In questo verrà loro in aiuto l’istruttrice di nuoto interpretata dalla Von Trotta. Luoghi del film, alla rinfusa: uno zoo, un Biergarten, una Kneipe, la piscina, la spiaggia (topos in Achternbusch così come nei film di Marco Ferreri). I piani restano statici, gli spazi vengono attraversati irrimediabilmente da sinistra a destra. Il découpage è secco, elementare, senza sfumature. Il montaggio trancia e addiziona, trancia e addiziona. A volte un personaggio irrompe dal nulla nella conversazione che ha ascoltato fuori campo, un po’ come Marshall McLuhan “evocato” da Allen in Annie Hall (1977). I primi piani sono rarissimi, ma quando i personaggi si prendono la libertà di un monologo o di una canzone finiscono per guardare dritto in macchina. Vi sono, tuttavia, due primissimi piani di bocche (à la Svankmajer, verrebbe da dire), in particolare quando Braun cerca di mangiarsi un uccellino. In tema di maltrattamenti ai danni degli animali, segnaliamo a polsi tremanti anche Herbert che bastona un coniglio. Nei film di Achternbusch gli animali paiono avere la stessa funzione di apparizione o monito tipica dei film di Jodorowsky o di quelli messicani di Luis Buñuel… se non fosse che non ci sono veri simboli, in tutto il film, se non una costante reiterazione degli stereotipi bavaresi. Gli attori, in preda a un’imbalsamazione costante, vagano stanchi e idioti, lasciandosi andare ogni tanto a trovate grottesche proposte come il resto degli eventi: come se nulla fosse. Nell’ultima inquadratura una voce maschile urla dove vai, brutta troia!… e si vede Herbert, en travesti (vestito come sua madre), che starnazza lemme lemme nel Mare del Nord. Verso l’America, ma chi ci crede.

Servus Bayern, 1977

Ciao Baviera è uno dei titoli più conosciuti di Herbert, che qua interpreta un poetucolo spocchioso deciso a farla finita con la sua terra natìa. Da un punto di visto tecnico si notano una camera mobile (mai a casaccio) e un montaggio più attento e curato, che conferisce al film il fascino di una partita a scacchi. Tra le scene più interessanti, un incontro amoroso in campo lunghissimo a cui segue il dettaglio di un fiore scosso dalla meccanica dell’atto sessuale, e un siparietto demenziale tra Herbert e il solito Braun, nei panni rispettivamente del contadino scemo e del poliziotto tutto d’un pezzo (non a caso si chiama Knallhart!). Per tutta la durata del dialogo, Herbert bagna i piedi del compare con un innaffiatoio. Il film vanta un’impetuosa tirata contro la Baviera e la CSU che si conclude con la decisione, da parte di Herbert, di rifugiarsi in Groenlandia. Prima, però, si darà alla macchia vestendo il ruolo di ladro campagnuolo e finirà per crepare di cirrosi nel retro di un Biergarten, con la cacca nei pantaloni, mentre una cameriera sfodera un monologo lungo quasi dieci minuti interrotto solo dal primissimo piano di un occhio. Il finale è del tutto sognante: immagini di rane crocifisse (alas…), vento felliniano e, in chiusura, un panorama aereo della Groenlandia, muto, senza titoli di coda.

Bierkampf, 1978

La lotta della birra, girato durante l’Oktoberfest, è l’esempio più brillante di film d’improvvisazione targato Achternbusch. La struttura è ancora più sketchy del solito, ma invece dell’immobilità e degli spazi vuoti abbiamo qua l’universo brulicante, il viavai anarchico dell’evento bavarese per eccellenza in cui, semel in anno, tutto l’ordine così puntigliosamente mantenuto da mamma Baviera va a gambe all’aria – nel perimetro della kermesse, sia chiaro. Herbert interpreta un poliziotto in crisi che si aggira tra gli stand. La colonna sonora è dominata da un unico trombone che s’intravede, per un attimo, suonato da un tizio prima in un pisciatoio pubblico, poi appoggiato a un muro – al che Herbert si avvicina, prende lo strumento, lo suona e si sincronizza con la bande son. Piccolo gioco metacinematografico. Al di fuori dell’Oktoberfest vi sono solo due scene: una domestica e una bucolica, con una strada verso il nulla che ricorda Il fascino discreto della borghesia (1972), sappiamo di chi. Nella seconda parte del film Herbert si aggira nel luna park della birra al solo scopo di molestare gli avventori. La sua comicità è smaliziata ma confusa, tutta a base di faccia di bronzo e invadenza. Parla poco e per aforismi, sentenze sputate; fa i dispetti. Il suo gruppo di attori fa lo stesso. È come se applicassero un metodo ormai assodato a un ambiente solo più affolato del solito. Alla fine il caos aumenta e conduce al suicidio del poliziotto, fuori campo. Vediamo un clown che cade a terra. I suoi palloncini volano verso le statue di un palazzo storico, poi verso il cielo notturno. So hört es auf. Così (la) smette. Finis.

Das Gespenst, 1983

La pellicola più sudata di Herbert è suddivisa in cinque capitoli e fotografata in un bianco e nero che applica al film una patina più pauperista che sofisticata. Lo stesso effetto ottenuto in Das letze Loch (L’ultimo buco, 1981), in cui Herbert interpreta un soldato (demente) alle prese con l’Olocausto. Il Gesù Cristo di Herbert viene chiamato Ober, superiore, e in tale veste appare nel primo capitolo Ober und Oberin, in cui scende dalla croce e si confronta con una suora tra una scorreggia e una serpe che scivola tra le mele ai piedi di quella che sembrava una statua, e invece! E invece è viva, è Ober. Il capitolo successivo, Poli und Zisti, consiste in due piani-sequenza da suburra, in cui il Cristo prima colloquia a lungo con un paio di poliziotti poco brillanti (e dediti alla coprolalia), poi esce all’aperto e predica dinanzi a un gruppo di persone travestite da animali. In sottofondo, sirene e telefoni squillanti. Il terzo capitolo, Und der Mund, ripropone Ober in compagnia della sua Oberin, stavolta in campagna. Ober le fa un vero e proprio terzo grado sulla sessualità, poi passano all’azione. Nei pressi c’è un lago pieno di rane sulla cui superficie Ober fa giusto due passetti. Quarto capitolo, Freier Freitag: in interni, assistiamo al monologo di un’attrice che paragona Ober a uno spettro (sullo sfondo, una foto di Hemingway e una testa di animale tassidermizzata), poi Ober fa visita a un gruppo di centurioni che non sembrano molto diversi dai poliziotti di prima… L’ultimo capitolo è Ascher Fascher, in cui prima vediamo un vescovo intento in un’amabile conversazione dottrinaria, poi Ober sbuca d’improvviso da dietro una macchina come se fosse il mostro (bianco) della laguna nera, e infine lo vediamo alle prese con un miracolo. In realtà non compie nessun miracolo: si limita a spiare un adulterio e a sfruttare, una volta a tavola con la famiglia, le informazioni in suo possesso, generando sconcerto e meraviglia. Lo zoom dal suo volto adirato a una serpe, indicante metamorfosi, è forse uno dei suoi artifizi artiginali meglio riusciti. A scena conclusa, sullo schermo appare una parola sola soletta: amen.

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Per consultazione e approfondimento, il miglior testo mai pubblicato finora è italiano: Tutto in una volta. Herbert Achternbusch, a cura di Marco Farano e Sergio Toffetti, Lindau, Torino, 1996. Il volume uscì a testimonianza di una retrospettiva torinese.

Tutti i film di Herbert Achternbusch:
Klatschen der einen Hand, Das (2002) - mediometraggio · Neue Freiheit - keine Jobs (1998) 
· Picasso in München (1997) 
· Hades (1995) 
· Ab nach Tibet! (1994) 
· Ich bin da, ich bin da (1993) 
· I Know the Way to the Hofbrauhaus (1991) 
· Mix Wix (1989) 
· Wohin? (1988) 
· Punch Drunk (1987) 
· Heilt Hitler! (1986) 
· Blaue Blumen (1985) 
· Föhnforscher, Die (1985) 
· Rita Ritter (1984) 
· Wanderkrebs (1984) 
· Olympiasiegerin, Die (1983) 
· Gespenst, Das (1983) 
· Depp, Der (1982) 
· Letzte Loch, Das (1981) 
· Neger Erwin, Der (1981) 
· Komantsche, Der (1980) 
· Junge Mönch, Der (1978) 
· Bierkampf (1977) 
· Servus Bayern (1977) 
· Atlantikschwimmer, Die (1976) 
· Andechser Gefühl, Das (1974) 
· 6. Dezember 1971 (1972) - corto
· Kind ist tot, Das (1971) - corto

Occhio, infine, al seguente documentario in progress: Achternbusch (2008).


(Articolo ad opera dell'amico Simone Buttazzi comparso sul suo blog, che consiglio caldamente a tutti i cinefili, Unwort)

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