01/04/08

Il giardino delle delizie

Il giardino delle delizie
di Silvano Agosti (1967 ITA 75')
con Maurice Ronet, Evelyn Stewart, Lea Massari, Franco Bertoni.

Sono contento di aver creato questo blog che mi permette di mettere in luce film magnifici che, per un motivo o per l'altro, sono stati fraintesi e sottovalutati dalla svogliata critica ufficiale, spesso sottomessa alle ferree leggi del mercato e occasionalmente mancante di passione...quel corroborante sentimento vitale e intenso che turba lo spirito...inoltre dieci anni fa se uno cercava informazioni su un film si serviva dei famigerati dizionari, in cui autori cristallini (ma fuori dagli schemi) venivano sbeffeggiati e conseguentemente bollati per l'eternità con un giudizio sommario e poche stelline, ora le informazioni sui film si cercano sui motori di ricerca...
Il poetico Agosti gira nel 1967, in epoca precedente alla legge sul divorzio, questo suo primo straordinario lungometraggio incentrato sulle due notti susseguenti al matrimonio di Carlo e Carla, coppia ordinaria, apparentemente radioso prodotto di una vincente borghesia, allevata nel rigoroso rispetto delle convenzioni sociali e morali universalmente riconosciute.
Nel film emerge e deflagra il disagio esistenziale del protagonista, interpretato da un meraviglioso Maurice Ronet, vittima suo malgrado di una rigida educazione schizofrenicamente ambigua, che provoca nella sua psiche diversi nodi irrisolti.
Si tratta di un film molto complesso, personale e toccante, in cui ogni sequenza non è messa a caso, ma profondamente sofferta e pensata, in cui si assiste ad un continuo alternarsi di passato e futuro e di mondo fenomenico e immaginazione. Agosti, sin dal suo esordio, si dimostra un virtuoso del montaggio e riesce a comunicarci con esso, veramente, una miriade di messaggi...nel tentativo di parlare del film mi sono infatti dissolto nei sottili rivoli di senso a cui portano le sue fulminanti immagini, vero e proprio flusso di coscienza psichico e psicanalitico, materializzato in celluloide.
Il funambolico intreccio tra fantasia e realtà, tra reminescenze traumatiche dell'infanzia e immagini preveggenti della futura vita coniugale, ci mostra come la vita del protagonista sia in realtà sequestrata entro un percorso a priori preordinato e scontato, in cui egli è stato addestrato a "comportarsi come un cane da circo", praticamente docilmente ammaestrato a camminare sulle zampe posteriori.
Centrale nel film è il tema del peccato e della conseguente punizione, che letteralmente ossessiona l'incolpevole protagonista, vittima di un'educazione spirituale fondata sulla pratica della repressione e sul permanente rinvio della soddisfazione del piacere. Ciò che emerge è il conflitto fra l'anèlito di libertà del singolo e le soffocanti gabbie (matrimonio, famiglia borghese, riti religiosi) che, incessantemente, il potere gli erige attorno.
Lo stile delle splendide inquadrature di Agosti è estremamente concentrato sul particolare, consapevole di come dalle impercettibili sfumature degli atteggiamenti fisici dei suoi personaggi e parallelamente dai loro occhi, vero e proprio specchio dell'anima, si possano cogliere molte più informazioni e verità, che dalle loro parole ormai svuotate di senso, in quanto inesorabilmente obbedienti a rituali e circostanze prefissati.
Uno dei temi che ha scatenato contro Agosti gli strali del potere religioso e politico, all'epoca dell'uscita della pellicola, è stato il mostrare una volta per tutte ed inequivocabilmente l’ipocrita binomio fra un atteggiarsi esteriormente sessuofobo delle istituzioni che presiedono all'educazione formativa del bambino (chiesa, scuola e famiglia), e la paradossale recondita pratica morbosa e violenta della sessualità stessa da parte di coloro che di quelle istituzioni sono esponenti e sostenitori (il padre che costringe la madre a un rapporto sessuale forzato e violento, il prete che dà a Carlo una carezza un po’ troppo ambigua subito prima di punirlo, la traumatica esperienza scolastica in cui Carlo subisce le avances sessuali del suo maestro...).
L'attacco frontale al matrimonio (e a tutte le convenzioni sociali e religiose che si porta dietro) è implacabile, nel ripercorrere gli impeccabili rituali viene selvaggiamente evidenziato l'elemento di insanabile frattura...il protagonista è ammalato di una malattia esistenziale, ormai incurabile, sicuramente causata dagli equivoci messaggi di una società repressiva, autoritaria ed ipocrita. Tenta di opporsi in molti modi, posseduto da una rabbiosa insofferenza, ma il suo coinvolgimento nelle maglie perverse del sistema è talmente avanzato che il suo destino è comunque ineluttabilmente segnato. La moglie, incinta di tre mesi, è invece ormai definitivamente un burattino del sistema, un'attrice perfettamente in parte nella sciatta banalità del quotidiano, che in ogni situazione rispetta le regole e i rituali prestabiliti...alla domanda innervosita di lui sul perché legarsi a doppio filo per tutta una vita...lei risponde candidamente "Carlo, io non lo so, ma se si è sempre fatto vuol dire che un senso c'è". A tal proposito viene ad essere geniale l'utilizzo del rumore dello sciacquone guasto del water, come accompagnamento costante alla prima notte di nozze dei due sposini.
Magnetica ed enigmatica la figura della silenziosa donna coi capelli neri, d'aspetto antitetica alla bellissima bionda moglie, in realtà chimera di libertà, materializzazione della soddisfazione del famelico desiderio di Carlo, che si evidenzia in una pulsante sequenza in cui i due hanno un proibito e lacerante rapporto, "girato con affannosi primi piani su toni drammatici, quasi infernali". La punizione non tarderà ad arrivare...(ma non la svelo per non rovinarvi la visione).
Altra mirabolante sequenza è quella della danza gioiosa e spensierata, al ritmo di un'ipnotica musica beat, dei giovani sulla spiaggia che viene intercettata da una irreprensibile processione. Il contatto tra i due mondi porta all'interruzione della danza da parte dei ragazzi alla ricerca di un qualche tipo di scambio comunicativo, mentre la processione continua ottusamente la sua marcia, e questo la dice lunga sul diverso grado di apertura mentale...
E ovviamente punto di partenza e di arrivo del film è "il giardino delle delizie" di Bosch, vero e proprio summa di tutto ciò che possono essere i rapporti umani.

http://www.silvanoagosti.com
Per approfondire consiglio la strabiliante dissezione del film ad opera di Filippo Schillaci: http://www.mat.uniroma2.it/~schillac/cinema/agosti/cap1.htm
"Il film fu linciato durante la proiezione al festival di Pesaro: urla, fischi, schiamazzi, rimproveri. Compensati dal fatto che il pubblico attribuì al mio film il primo premio del Festival. Sono stato grato alla gente e non a caso la gente mi ha sempre sostenuto, in un modo molto forte. Mentre i critici mi hanno sempre ostacolato perché hanno un senso di colpa che nasce da allora. A un certo punto, un prete o sedicente tale, un certo Don Sorge, non il magnifico Gesuita ma un «Sorgino», si alzò e gridò: «Sacrilegio, sacrilegio!», perché c’era il bambino che giocava alla messa con la bambola crocefissa. Questa esperienza mi ha fatto capire tante cose e ho deciso irrevocabilmente che non avrei mai più fatto del cinema. Ma non fu a Pesaro che decisi, decisi dopo, in Vaticano, quando per fare uscire il film ci fu una proiezione. La proiezione si fece in via della Conciliazione alla presenza di tutti gli autori cattolici: Liliana Cavani, Italo Moscati, Cavallaro, Cardinale... Non era previsto che ci fossi io, ma ci andai ugualmente e fui sottoposto a un esame che durò almeno due ore e mezza, dopo il film. Psicologicamente, almeno sei o sette ore per me. Ciò che mi fece decidere irrevocabilmente di non fare più del cinema, fu quello scheletro con la papalina viola che si alzò e disse: «Agosti può continuare a fare del cinema purché affiancato da persone responsabili, in fase di sceneggiatura». A me questa frase risultò talmente assurda e talmente incomprensibile, battuta nell’incomprensibilità, solo dalla frase che uno dei massimi esponenti democristiani del Parlamento mi disse subito dopo. Quest’uomo che si chiamava Silvano Battisti, la sera prima mi aveva detto: «Io combatterò sempre il tuo film». Dopo questo interrogatorio in Vaticano, mi prese sottobraccio e mi disse: «Abbiamo vinto». Come abbiamo vinto! Si era improvvisamente alleato con me, dopo aver detto, la sera prima, che avrebbe combattuto il mio film. Questo magma scolpito nell’ipocrisia, nell’imprecisione, nell’arroganza, nella violenza estrema, di stampo, addirittura preriformistico, da inquisizione... In fondo avevo solo fatto un film, non avevo mica ammazzato nessuno...Nel frattempo il film era stato visto da una commissione per l’esposizione nelle sale di Montreal, ed era stato invitato come uno dei dieci film più importanti, allora dicevano, del mondo. A Montreal ho incontrato dei personaggi come Jean Renoir, Fritz Lang, John Ford, era troppo vecchio, l’ho solo toccato. Poi c’erano Glauber Rocha, Dusan Makavejev e Monte Hellman con cui sono rimasto amico tutta la vita..."
Silvano Agosti
(da un'intervista a cura dell'Associazione Culturale L'Alambicco di Cagliari)

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