13/03/08

Il coltello nell'acqua

Nóz w wodzie
di Roman Polanski (1962 POL 94')
con Leon Niemczyk, Jolanta Umecka e Zygmunt Malanowicz

Primo lungometraggio di Roman Polanski, ventinovenne, con cui ottiene una nomination all'Oscar come miglior film straniero, e consegue il Premio della Critica al Festival di Venezia nel 1962. Unico lungometraggio diretto in Polonia, prima di trasferirsi in Europa ed in seguito negli Stati Uniti, sia per motivi personali, che per la quasi unanime accoglienza decisamente negativa del film in patria, nella quale tornerà solo quarant'anni dopo per le riprese de “Il pianista”.
“Il coltello nell'acqua” è ispirato ad un viaggio di Polanski in Masuria, ambiente originario nel nord della Polonia, durante l'estate del 1954, occasione in cui scopre la vela. Da questa esperienza nasce prima un racconto che, per consiglio del direttore artistico del gruppo Kamera, diventa presto una sceneggiatura con l'aiuto dell'allora studente Jerzy Skolimowski.
Per quanto riguarda gli attori, Polanski ingaggia Leon Niemczyk (curiosità: presente in un piccolo ruolo in “Inland Empire”), attore di teatro sperimentale, per il ruolo di Andrzej, il marito; per l'autostoppista viene scelto il giovane tormentato attore Zygmunt Malanowicz, solo dopo aver a malincuore scartato l'ipotesi di interpretare questo ruolo lui stesso (si limiterà a doppiarlo) ; per Krystyna, la giovane moglie, la parte verrà affidata a Jolanda Umecka, non professionista (doppiata da un'attrice professionista), notata in una piscina di Varsavia, dopo il rifiuto di Eva Kazyzewska, attrice che aveva lavorato con Wajda.
L'equipe si stabilisce per le riprese proprio nella zona dei laghi della Masuria, collocando i mezzi su piattaforme e piccoli battelli in acqua, girando con enormi difficoltà non solo a causa del condizionamento del tempo meterologico, del lavoro con attori non tutti professionisti, dell'impossibilità di utilizzo delle scene girate in interno, ma anche per vicende personali dello stesso Polanski, che in questo periodo, tra le altre cose, perde Andrzej Munk, uno dei suoi professori e mentori, e si separa dalla moglie.
Nonostante tutto, il risultato è un film raffinato e maturo. Scorre preciso in ogni singolo dettaglio, tanto da astrarre la storia da ogni tempo ed ogni dove, per offrirla eternamente all'affresco dei recessi più oscuri delle relazioni umane. Per caricarla di soli tre personaggi, che in due giorni andranno ad interagire fino a formare un triangolo amoroso che avrà la forza di un unico organismo vivente (come lo shangai, uno dei giochi su cui proietteranno loro stessi e il loro rapporto): un giornalista maturo e benestante, la bella moglie, e un giovane autostoppista, caricato per provocazione inizialmente interna alla coppia, che sta per trascorrere il week-end in barca a vela.
Nella prima scena, in cui i due partono con una lussuosa automobile, si vede sul parabrezza anteriore il riflesso degli alberi al lato della strada percorsa, fughe evanescenti di ombre sui loro visi e sul loro silenzio, intuizione del loro rapporto e presagio di quanto sta per accadere. Appena la terza persona viene assoldata, il triangolo si forma, gli equilibri slittano ai tempi dovuti con nuda ferocia, il gioco tra i ruoli esplode, il viaggio inizia. Sono immediati il clima erotico e la tensione psicologica.
I corpi sono vivi, fieri. Corpi e volti a cui vengono dedicate lunghe inquadrature, bellissimi primi piani, singoli, a due, a tre (l'assenza di un attore non è mai prolungata), soffermandosi su tre figure all'interno di un'immagine, lavorando su tre livelli contemporaneamente. Aggiungono ai dialoghi scarni, assoluti, misurati in ogni parola (di carveriana memoria), una carnalità all'apice della propria forza, che prorompe dagli abiti con l'impeto dell'accadere, che racconta al di là delle parole che, qui, non sono tutto ciò che abbiamo. Qui c'è la trabordante sensualità ripulita e controllata di lei, che si abbandona e trasuda finalmente nel togliersi gli abiti e infine nello sciogliere i capelli, liberando una femminilità strumento e testimone; lo svagato selvaggio candido dolce biondo insolente del ragazzo; lo scarmigliato determinato piglio nervoso arrogante e virile dell'uomo.
C'è una donna al centro. Due uomini di due differenti generazioni in contrasto. Il tutto sfocia in una competizione orizzontale, diretta, carnale. E il coltello su tutti, allusione sessuale, simbolo fallico, strumento onnipresente di provocazione, di rischio, di pericolo, d'uso concreto.
Inevitabilmente affiora nell'agire dei due uomini qualcosa di primitivo, di basico, il gioco del potere virile, di conseguenza quello dell'umiliazione, dell'affermazione della propria forza nel proprio territorio. A tratti giungendo ad una regressione burlesca. A tratti sfiorando uno scambio voluttuoso, anche se sempre contenuto nella sfida, che raggiunge il suo apice proprio nel gioco che il ragazzo mostra all'uomo che consiste nel passarsi velocemente il coltello tra le dita aperte, reso ancor più sensuale dallo sguardo rivolto al viso contratto piuttosto che alla mano. Come se questo fosse il vero unico amplesso consumato. Come se questo scontro avesse in sé qualcosa di più potente e complesso rispetto a quanto o cosa sarà poi conquistato. Fino al transfert, alla trasformazione, al riconoscersi l'un l'altro e allo scambiarsi impercettibilmente.
Il ruolo della donna è il fulcro, ai due lati del quale avviene l'annusarsi, il provocarsi, il misurarsi dei due uomini. Lei, equidistante, estranea ai giochi, è la più forte tra i tre, consapevole che non ci sarà né un vinto né un vincitore, ma solo un ritorno della visione di sé stessi in tempi differenti in cui si frantumano i rimorsi o le speranze, e si accende la realtà più universale dell'uomo in quanto tale. Lei, oggetto del desiderio estremo, quello della vanità, è lo specchio tra due immagini tanto simili quanto lontane. Che si riconoscono ma che non si accettano. O che si accettano proprio nel non volersi riconoscere.
La macchina da presa entra in perfetta osmosi, caricando l'inquadratura di sensualità, alternando profondità di campo a primi piani, lavorando sempre sull'estetica drammatica delle linee di fuga verticali (le corde, l'albero) ed orizzontali (la barca, l'orizzonte, i tronchi galleggianti), che costruiscono la trama all'interno della quale agire. In cui entrare inevitabilmente attraverso tre punti di vista, come la differente angolazione della parte visibile che mostra il ragazzo giocando a guardare il proprio dito puntato al cielo ora chiudendo un occhio, ora chiudendo l'altro.
La scelta del bianco e nero e la fotografia sono impeccabili: “L'ombra è teatro di prodigi”, recita il giovane. Questi scuri e chiari, senza nessuna immagine che evochi un colore che non giunga dalla natura, come l'azzurro del cielo e del mare, che non appartenga già alla nostra memoria, quindi senza nessuna leziosità sottintesa, scarnificano la scena. Così, saranno esattamente la sensualità di corpi e l'asciutta interazione a riempire di colore intenso e saturo tutte le spaccature.
Necessaria anche la scelta della barca a vela, luogo angusto che implica “nervi saldi e disciplina”, un'unione forzosa di stretto contatto, una puntualità e ritualità dei gesti, un'assegnazione di ruoli, una cambio d'abito, un tempo scandito dal tempo meterologico, giorno o notte, vento o non vento, sole o pioggia, fuori dalla percezione quotidiana, dentro invece ad un accadere con regole sue proprie. Con dinamiche anche relazionali nel movimento o nella stasi in barca assolutamente differenti rispetto alla terraferma.
Inclusa in ciò ovviamente anche la scelta dell'acqua, atalante, elemento materno e madre, su cui scivolare o affondare, (“sull'acqua è impossibile tracciare una retta tra due punti”, afferma Gilles Deleuze). Memorabile l'inquadratura delle gambe del ragazzo che corrono sull'acqua, primi giocosi e sfrontati passi ad accumulare del fatto rispetto al non fatto.
Imprescindibile, liberatorio ed emozionante il sassofono di Bert Rosengrend sulle magnifiche composizioni di Krzystof Komeda, che, alternandosi ai silenzi, si lega alle immagini e ai tre corpi indissolubilmente, ora giocoso, ora suadente, ora pieno di tiro, ora rabbioso. Il suono è liquido, senza l'arroganza di un ulteriore elemento, ed ha la forza di strappare le immagini dagli occhi, per ricollocarle in una zona della memoria, il cui unico accesso ha come chiave l'udito. Senza dimenticare che nella Polonia dell'epoca il jazz ancora non era accettato. Questo restituisce una profonda sovversione anche nelle scene. Il sassofono veleggia.
Appena il triangolo si scioglie definitivamente, la relazione tra i coniugi (ma anche lo spettatore) vacilla, non per demolizione delle certezze della coppia o per il vacillare del loro complesso rapporto, quanto per l'improvvisa assenza di contrappeso esercitata dal ragazzo. Il film è circolare, si chiude apparentemente come inizia, anche se la macchina da presa lascia guardare solo attraverso un campo lungo da dietro. Sulla terraferma abiti normali, un ricomporsi rituale, un ritorno allo stress, ad una consapevole complicità menzognera, con qualcosa di cambiato, con la consapevolezza di ciò che è andato perduto. Camminare non è veleggiare. Bivio. Dove andiamo? Nell'ultima immagine l'auto ferma ad un bivio sembra una barca arenata in una secca d'asfalto.
(Post ad opera di Bascka)

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