03/02/08

Spell (Dolce Mattatoio)

Spell (Dolce Mattatoio)
di Alberto Cavallone (1977 ITA 90’)
con Jane Avril, Martial Boschero, Paola Montenero, Monika Zanchi,
Giovanni De Angelis, Josiane Tanzilli, Macha Magall.

Finalmente editata in DVD quest'opera controversa e sconcertante da uno dei cineasti più radicali ed eccentrici della nostra cinematografia, per anni rimosso dalla storia del cinema a causa della sempiterna cecità dell'ingessata critica tradizionalista italica, poi riscoperto grazie all'encomiabile lavoro del gruppo di "Nocturno". Segnalo anche che recentemente al cinema Trevi di Roma è stata proiettata una incredibile retrospettiva dei suoi lavori, ad eccezione dell'agognato Maldoror (http://www.nocturno.it/bbforum/smf/index.php?topic=8068.0), per cui spero in una prossima utopica edizione in DVD, almeno di "Blow Job", "Zelda" e "Le Salamandre".
Un cinema, quello di Cavallone, che unisce forti aspirazioni intellettuali con pratiche basse e malsane in un'amalgama esplosiva di sesso, violenza, politica, analisi sociale, religione, arte, surrealismo, psicanalisi e ribellione.
Per il regista le immagini sono come proiettili, urticanti pallottole in grado di ferire gli occhi e scuotere le coscienze.
Dopo diversi anni di permanenza a Castelnuovo di Porto, paese in provincia di Roma, Cavallone decide di fare un film, ambientato durante l'annuale festa paesana in onore del santo patrono, tradizionale occasione in cui agli abitanti è permessa una scarica delle energie pulsionali, altrimenti compresse e altamente pericolose per il mantenimento dell'equilibrio sociale, momento dionisiaco in cui Eros e Thanatos si manifestano e si intrecciano in tutta la loro crudele veemenza. Cavallone, con piglio insieme documentaristico e provocatorio, realizza così un'opera complessa e sfacettata, che rimanda come approccio e onestà intellettuale all'insostenibile capolavoro apocalittico "Salò" di Pasolini (scatologia compresa).
La realtà paesana italiana viene fotografata con implacabile lucidità nei suoi aspetti più reconditi e proibiti, in un'epoca in cui la televisione non aveva ancora lobotomizzato le menti. La dice lunga sulla sincerità del regista il fatto che nessuno degli abitanti del paesino rappresentato, vedendo il film successivamente, si sia lamentato dell'immagine mostrata o abbia protestato per la terribile crudezza della pellicola. Ciò che emerge dalla visione trent'anni dopo, molto in anticipo sui tempi per l'epoca, è una profonda angoscia esistenziale e politica che permea e si conficca nelle esistenze dei protagonisti. Come giustamente scrivono Pulici e Gomarasca "le piccole comunità, che sono il futuro del mondo, della società, rispecchiano con anticipo ciò che il mastodonte opererà in seguito, dopo anni e anni".
Ci sono tutti nel girone infernale di Cavallone: l'artista comunista, il macellaio che coltiva allucinazioni erotiche e si accoppia con quarti di bue appesi nella cella frigorifera, la prostituta che vive alla fine del paese e dispensa favori alle autorità leggendo fumetti porno tra una prestazione e l'altra, il contadino maschilista e violento, il prete più intento a vendere i biglietti della lotteria che a confessare i peccati, il poliziotto, la moglie frustrata, la moglie folle, la ragazzina ninfomane, il padre di famiglia piccoloborghese che libera i propri fantasmi incestuosi mettendo incinta la figlia, la moglie ipocrita, la figlia immatura e confusa, il medico, lo straniero vagabondo... Su tutti vigila l'occhio enigmatico e indifferente di un gallo che ogni mattina con il suo canto dà il via alle ferali danze in cui l'inferno sono, citando Sartre, gli altri.
La messa in scena è spiazzante e avvolgente, grazie alla fremente cultura del regista, ricca di rimandi a molti dissidenti dell'arte contemporanea, da Max Ernst a Bataille (citato alla lettera nella sequenza in cui Josiane Tanzilli si infila nella vagina un occhio di bue), da Artaud a Makavejev, dal marchese de Sade a Jean Genet, da Courbet con la sua geniale "l'origine du monde" alla pop art, da Lautrémont a Bunuel, da Magritte a Pasolini, da Freud a Marcuse.
Da segnalare l'eccezionale montaggio e le coinvolgenti musiche unite ad una superlativa fotografia, elementi che contribuiscono non poco alla riuscita della pellicola.
Un microcosmo, quello del film, per il quale vale l'assunto di Fromm, secondo cui la sicurezza della normalità deriva dalla constatazione di essere uguali agli altri, pur rinvenendo stimoli "malati" nel comportamento interpersonale, e dal fatto di trovare insieme agli altri quelle soddisfazioni sostitutive che pongono temporaneamente fine al malessere pre-sentito del singolo.
La figura dell'artista/comunista è una di quelle che più incidono nell'immaginario, letteralmente scorticando la nostra sensibilità, in quanto anticipa il disinteresse attuale degli intellettuali verso l'uomo e contemporaneamente evidenzia la drammatica perdita di ideali dei nostri tempi con la disperata sfiducia e il secco nichilismo conseguenti: "non ho ancora capito se il mio è un lavoro serio, se serve a qualcosa o a qualcuno, se è più importante la realtà o la sua immagine, o se bisogna buttare al cesso tutto e valorizzare solo la fantasia, il gioco, il sesso".
Fotografata è la profonda crisi personale e la frustrazione conseguente che determina l'affidamento esclusivo dell'essere umano alla fantasia interiore e alle interpretazioni individualistiche, uniche tecniche che consentono di gestire la frustrazione, ma che inevitabilmente portano ad un ulteriore desocializzazione.

Anche la figura della moglie dell'artista/comunista, enigmatica e folle, anticipa un'inquietante tendenza dell'Italia contemporanea in cui la malattia mentale sta dilagando selvaggiamente in tutti gli strati sociali e a tutte le età. Il malato mentale come prodotto finale di una società alienante altamente meccanizzata, come colui che non si vuole adattare o vuole fuggire da una responsabilità per lui troppo grande, ma anche come colui che disperatamente rifiuta la massificazione.
Ma la fantasia e il sesso non sono per Cavallone una soluzione, poiché ogni personaggio in "Spell" ha un rapporto problematico con la sessualità e le immagini erotiche da cui siamo quotidianamente bombardati non hanno fatto altro che provocare un'assuefazione generale e uno slittamento del desiderio e del piacere verso pratiche erotiche sempre più estreme. L'artista/comunista non fa sesso, sublima tutto nelle sue opere, elaborando bizzarri collage con visceri ritagliati da atlanti anatomici medici appicicati su foto di modelle (e cronenberghianamente ante litteram afferma "qualche volta fa bene vedere come siamo fatti dentro: spariscono le illusioni e resta la realtà, che, credimi, è l'unica medicina per andare avanti...al giorno d'oggi al posto della verità ti danno solo bidoni"). Il sesso nella comunità paesana di "Spell", specie per le donne, è sempre non soddisfacente, aggressivo e perturbante in un microcosmo maschilista e retrogrado. Solo la figura dello straniero senza nome, sbucato fuori dal nulla di un cimitero ad inizio pellicola, riesce a soddisfare le esigenze profonde e carnali delle diverse figure femminili del film, ma risulta anche l'elemento catalizzatore delle tensioni e della rabbia che pervadono il paese (figura chiaramente simile allo straniero del "Teorema" di Pasolini), fino ad esserne divorato, letteralmente fagocitato e sacrificato da una società ipocrita e spietata, capace di digerire ogni nefandezza, per poi dimenticare tutto sulla scia di un festoso ballo finale frenetico e liberatore.

Interessante a tal proposito considerare come il regista stesso si impersoni con la figura dello straniero: "io ero un uomo che usciva dal cimitero e arrivava nel paese di provincia con il gioioso proposito di sconvolgerne gli abitanti, mettendoli davanti ad uno specchio, per fargli intuire ciò che erano veramente", e ciò la dice lunga sulla consapevolezza e preveggenza del suo inevitabile destino professionale, travolto da lì a poco dalla morte del cinema di genere e di un intero mercato, e costretto prima all'hard e poi alla bassa manovalanza televisiva in una società capace solo di "mettere preservativi sulle idee".
Non mancano nel film divertenti provocazioni surrealiste quali la scena del biliardo, la contadina che a letto legge un quotidiano su cui campeggia a caratteri cubitali la scritta "Mao è morto" e il collage formato dal volto di Lenin incollato all'epicentro del quadro di Courbet.
Altro illuminante spunto di analisi proposto dalla pellicola è che l'assuefazione alla violenza, mostrata tutti i giorni reiteratamente dai mass media, ha portato a disinnescare il potere politico esplosivo che potevano avere le immagini in passato. A tal proposito l'artista/comunista, riguardo a fotografie di guerra e di profughi vietnamiti, lapidario afferma "sono solo delle fotografie senza alcun significato, delle immagini vuote a cui ci hanno condizionati, immagini paravento della nostra realtà di tutti i giorni, detersivi per la nostra coscienza".
La visione del film stessa, invece, viene ad essere tuttora un’esperienza limite, problematica, aggressiva e perturbante, che travolge fede religiosa e ideale politico, ma che ci dice più cose sulla nostra società che decine di film alla Costa Gavras. Un'opera unica, frammentata ed imperfetta, immaginifica ed onirica, che si immerge negli abissi siderali della psiche riuscendo a rappresentare l'angoscia scaturente dalla frustrazione e dalla repressione, la disgregazione e parallelamente il progressivo imbarbarimento dell'uomo contemporaneo, secondo peculiari modalità intellettuali, comunque suggellate da una forse irripetibile libertà espressiva.

"Essere estremo per me significa essere a-normale, cioè fuori dalla norma. La norma è sopore, staticità, accettazione passiva dell'esistente. La norma è immorale, perché vuole essere morale. La norma disconosce l'etica universale. Essere normali significa non progredire e accettare soltanto ciò che protegge i meccanismi dell'esistenza. L'anormalità è desiderio di progresso, è ricerca e scoperta di nuove etiche e morali adeguate ai cambiamenti che la norma nega...Sono anormale, non estremo."
(Alberto Cavallone intervistato in Nocturno n.4, settembre 1997, p.46)
Per approfondimenti:
http://esotikafilm.com (cercare articles Alberto Cavallone: Story of an eye. Roberto Curti)
oppure leggere articolo su Cavallone, sempre del grande Curti su "Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo". Edizioni Lindau.

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