30/11/07

Liquid Sky

Liquid Sky
di Slava Tsukerman (1982 USA 118')
con Anna Carlisle, Paula Sheppard, Susan Doukas, Otto von Wernherr.

Residuo radioattivo della new wave newyorchese, autentico ed indigesto scult di ufologia punk. La pellicola narra di una fotomodella punk androgina tossica e frigida e con una intensa vita sessuale, che diventa inconsapevolmente l'esca di cui si servono alcuni minuscoli alieni, che si installano nel suo appartamento al centro di New York. L'obiettivo dei tossici alieni è nutrirsi di un'endorfina sintetizzata nel cervello umano durante l'orgasmo sessuale o durante quello indotto da sostanze stupefacenti.
Scritto dall'enigmatico regista russo Slava Tsukerman (allievo di Kulesov) con la collaborazione dell'attrice Anne Carlisle è un film bizzarro, inusuale, trasgressivo, povero di mezzi ma ricco di invenzioni, che ci consegna un frammento cristallino di desueta estetica new wave. No-wave cinema puro, che documenta la devastante invasione delle sostanze stupefacenti nelle subculture giovanili metropolitane e viene quasi ad esorcizzarne in maniera graffiante gli effetti spaventosi, che porteranno effettivamente all'estinzione di un'intera generazione, di nome e di fatto veramente NO FUTURE. Da citare la sequenza cult in cui la Carlisle è impegnata in una fellatio, interpretando contemporaneamente i due protagonisti della scena, la modella Margaret e il modello gay Jimmy. Le sghembe musiche elettroniche sono realizzate utilizzando il rarissimo e per l'epoca costosissimo Synclavier (potente sistema che integrava sintetizzatore digitale e campionatore musicale) e contribuiscono non poco ad accentuare l'atmosfera weird e l'anima dissociata della pellicola.

La vita procede quasi dritta

Ci abituiamo a poco a poco al buio
quando la luce è scomparsa ai nostri occhi,
come quando il vicino tiene in mano
il lume, testimone del suo addio.
Per un momento camminiamo incerti,
la novità della notte ci avvolge,
poi la visione si adatta alle ombre
ed avanziamo ritti sul sentiero.
Così accade in tenebre più vaste,
in quelle notti della nostra mente
quando a svelare un segno non c'è luna,
né sorge alcuna stella dentro l''anima.
I più audaci vanno un po' a tastoni,
e sbattono talvolta con la fronte
contro un albero, colpendolo in pieno.
Ma non appena imparano a vedere
o la tenebra non è più la stessa,
o qualcosa si aggiusta nella vista
adeguandosi alla notte fonda,
e la vita procede quasi dritta.
(Emily Dickinson)

(foto: scat.blog)

29/11/07

Signori della Guerra

Voi che fabbricate ogni tipo di arma
voi che fabbricate aeroplani mortali
voi che fabbricate bombe potenti
voi che vi nascondete dietro ai muri
voi che vi nascondete dietro alle scrivanie
Voglio solo che voi sappiate
che posso vedervi attraverso le vostre
maschere
voi che non fate mai nulla
che non sia per distruggere
voi giocate con il mio mondo
come se fosse il vostro giocattolino
Mi date in mano un fucile
e vi nascondete ai miei occhi
e vi voltate e scappate lontano
quando le pallottole volano veloci.
(Bob Dylan)

Il Paese del Silenzio e dell'Oscurità

Land des Schweigens und der Dunkelheit
di Werner Herzog (1971 RFT 85’)
con Fini Straubinger, Heinrich Fleischmann, Vladimir Kokol, Resi Mittermeier.

Per compiere questo viaggio al termine della notte uno dei più grandi registi viventi ha avuto per guida la risoluta e delicata Fini Straubinger, sordocieca (diventata cieca a 15 anni e sorda a 18) che gli fa da interprete e cicerone attraverso un'esperienza interiore peculiare, unica ed emozionante come quella data dal contatto con la comunità dei sordociechi.
Per poter comunicare con la sua musa, Herzog dapprima ha appreso l'alfabeto tattile, poi ha seguito Fini per cinque mesi, documentandone la lotta quotidiana e i costanti sforzi tesi a cercare un contatto e una comunicazione con i suoi compagni di destino, al fine di alleviarne l'infinita solitudine. La protagonista è accompagnata dalla tenera cinepresa del regista in una serie di visite a persone sordocieche o istituzioni preposte ad accoglierne e documenta come la fine sensibilità della donna riesca sempre a trasmettere il suo calore umano, la sua serena energia interiore, comunicando con un'umanità marginale, che inaspettatamente può raggiungere apici di profondità umana inimmaginabili.
Ne scaturisce un film meteora, un viaggio sensoriale che raffigura un mondo distante anni luce dalla nostra civiltà industrializzata, alieno alla nostra realtà percettiva, ma allo stesso tempo presente (omesso) al nostro fianco.
Incredibile la capacità di Herzog di non fare violenza ai soggetti ripresi e di metterne in luce l'intensa umanità intrinseca, bisognerebbe sottoporre Costanzo e compagni a una "cura Ludovico" proponendogli questo film in loop, per fargli comprendere come va rappresentato e rispettato l'handicap.
La sensibilità visiva di Herzog è raffinata, delicata e magnetica e riesce a suggerire l'indicibile attraverso i dettagli e tutto questo gli permette di produrre suoni e soprattutto immagini non più compromessi dall'omologazione planetaria.
Ripercorrere le esperienze e le sensazioni dei sordociechi significa, per il regista, riproporre a tutti gli spettatori il problema del vedere e del sentire come una sfida, alla ricerca della purezza dei sensi, altrimenti ottusi e logorati dall'abitudine. I sordociechi, inoltre, vengono a rappresentare un'illuminante e misteriosa presenza, enigmatica e destabilizzante per le nostre certezze di cartapesta e per il nostro mondo in maschera.
Molti i momenti della pellicola dove Herzog riesce a catturare l'essenza e a creare pura poesia, tanto che alla fine della visione ci siamo assolutamente dimenticati del grave handicap che affligge questi rilucenti esseri umani.

"In tutti i miei film troverete...visioni. Sinceramente sono molto depresso per questi clichés pubblicitari, questi manifesti di viaggi, queste immagini inutili e insignificanti che ci circondano. Meritiamo di meglio. Il film su kaspar Hauser mi dà un'eccellente occasione di mostrare una sorta di prima visione delle cose. Io voglio mostrare a cosa può assomigliare un albero quando lo si vede per la prima volta nella vita. E' come se fosse la prima volta che si aprono gli occhi per vedere come è fatto il mondo. Ho l'impressione di appartenere al mondo della notte e che i miei film nascano dall'oscurità. Cerco di trovare o di creare un vocabolario di nuove immagini in cui la realtà diventi irreale e visionaria, come per esempio quei mulini a vento in "Segni di Vita" o quella barca in cima ad un albero in "Aguirre". sono cose reali ma in trance, simili ad allucinazioni." (Werner Herzog)

28/11/07

Flaming Creatures

Flaming Creatures
di Jack Smith (1963 USA 42')
con Francis Francine, Sheila Bick, Joel Markman, Mario Montez,
Arnold Rockwood, Judith Malina, Marian Zazeela.

Celeberrimo film dell'avanguardia americana, manifesto della destrutturazione cinematografica sia per quanto riguarda le scelte formali che di contenuto. Fiammeggiante inno alla libertà individuale, girato in un solo giorno a New York, sul tetto di un palazzo del Lower East Side utilizzando lampi di genio e pellicola scaduta, il film rappresenta con una sconcertante anarchia visiva una baldoria collettiva dei bassifondi. Le immagini, spesso date da abbaglianti flash subliminali, sono contorte, imperfette e quasi terremotate dall'interno e vengono accompagnate da atmosfere oniriche e allucinate che rievocano i film surrealisti degli anni Venti e Trenta.
Le protagoniste della pellicola sono creature fiammeggianti ermafrodite, ambigue sirene vamp, paradossali drag queen dal trucco eccessivo (il misero budget di trecento dollari servì per gli accessori, i trucchi e i costumi che richiesero diverse ore di preparazione agli attori prima delle riprese) immortalate in un istante di libertà estrema ed irripetibile. Il richiamo, non senza una iniezione salvifica di umorismo beffardo, è alla Hollywood classica, quella della Dietrich e di Marilyn, riproponendone l'aspetto scintillante e kitsch al tempo stesso, in un'esaltazione appassionata dell'immagine.
Dalla pellicola trasuda un'energia vitale pura e autentica (il richiamo è all'energia pulsionale cosmica delle teorie di Wilhelm Reich), che scaturisce dalla trasgressione dell'ordine costituito, dallo scandalo nell'ostentare un'alterità aliena, dallo sberleffo portato verso la storia e la cultura ufficiali, determinando nello spettatore uno sconvolgente sisma delle convinzioni e dei sensi. Tutta una generazione di cineasti e performers americani sarà influenzata nel profondo dall'opera rivoluzionaria di Smith e probabilmente senza quest'opera seminale, non esisterebbero Nick Zedd, Richard Kern e Ian Kerkhof.
Il regista Smith è un personaggio dell'underground stravagante e carismatico e nella sua fulminante carriera sarà impegnato su più fronti dalla fotografia alla scrittura alla performance art, sempre nel solco di una indipendenza e intransigenza senza eguali.
La proiezione del film all'epoca venne più volte ostacolata dalle autorità (e tuttora il film rimane vietato in molti posti del mondo), che arrivarono ad arrestare e processare Jonas Mekas, strenuo sostenitore del lavoro di Smith e responsabile della sua diffusione attraverso le proiezioni alla Filmmakers Cinémathequé. Il film fu paradossalmente rifiutato anche dalla Commissione di Selezione del Festival d'Avanguardia di Knokke le Zoute in Belgio, ma Mekas con un vero atto surrealista lo proiettò ugualmente nella sua stanza d'albergo, così che alla fine tutti i partecipanti al festival lo videro, spargendone successivamente la fama in tutto il mondo. Allo stesso festival, l'ispirato Mekas quando il ministro della giustizia belga, che era anche presidente onorario del suddetto festival, entrò in sala riuscì con un gesto sublime a proiettargli in faccia "Flaming Creatures" per qualche minuto.

"E' un film talmente bello che mi vergogno quando vedo quel che si produce a Hollywood o in Europa. Io l'ho visto nel corso di una proiezione privata e ci sono poche possibilità che il film esca normalmente in qualche sala. Ma lo ripeto: è un diluvio d'immaginazione, d'invenzioni visive, di poesia, di talento cinematografico che non ha equivalenti se non nei grandi maestri, per esempio Von Sternberg." (Jonas Mekas)
"Flaming Creatures è un raro lavoro d'arte moderna a proposito della gioia e dell'innocenza senza alcun dubbio. Questa innocenza è fatta di temi perversi ,­secondo l'accezione corrente di questo termine, decadenti o quanto meno teatrali e artificiali. Ma penso che ciò è precisamente perché il film attiene alla bellezza e alla modernità." (Susan Sontag).

"Jack Smith è un anarchico, e i suoi film rompono tutte le regole del fare cinema. Si spingono troppo in là, e lo fanno di proposito. Sono troppo ineguali, troppo nervosi, troppo volgari, e a volte troppo belli." (Sheldon Renan)

27/11/07

La dolcissima Dorothea

Dorotheas Rache
La dolcissima Dorothea
di Peter Fleischmann (1973 RFT/FRA 92')
con Regis Genger, Anna Henkel, Barbara Ossenkopp,
Elisabeth Potchanski, Gunther Thiedicke

Introvabile in Italia il terzo lungometraggio simbolista di Fleischmann, autentico scult movie, narra di Dorothea, un'adolescente di Amburgo, figlia di borghesi benestanti, il cui padre si interessa solo ai giocattoli che fabbrica (meccanismi capaci di indurre risate isteriche nei possessori), mentre la madre ha una relazione con altri due uomini.
Dorothea annuncia, nelle prime sequenze, ai genitori di aver fatto l'amore con un marziano e come prova mostra di possedere un fumante meteorite. I genitori allarmati si chiedono se la pillola del giorno dopo possa aver efficacia in caso di rapporti del terzo tipo. Si scopre che la ragazza si diverte a parodiare i film erotici con gli amici alla ricerca del vero significato dell'amore. Ma ben presto passa dal gioco alla realtà, accumulando esperienze di ogni genere in una serie incredibile di situazioni freak...La discesa di Dorothea é progressiva e la ragazza attraversa questi affastellati "inferni derisori" senza mai perdere una sorta di grazia e innocenza, tanto che la protagonista fu soprannominata "Maria Maddalena del quartiere a luci rosse". Alla fine, con i suoi amici, Dorothea abbandona la città per stabilirsi in campagna, dove forse comincerà un'altra vita in un utopico finale dove il ritorno alla natura permette di rigettare l'oscena società degli uomini che distrugge l'amore e coglierne finalmente il vero profondo significato.
Nell'intenzione degli autori (Fleischmann e Jean-Claude Carrière) il film vuole rappresentare, attraverso le modalità della satira e le forme della parodia, la distruzione dell'amore e denunciare lo sfruttamento commerciale del sesso in una oscena società capitalistica. I metodi di ripresa sono affini a quelli del cinema verità con tutta la pellicola filmata con camera a mano in ambienti naturali, con una fotografia volutamente sciatta e rozza per richiamare l'estetica del cinema porno (che all'epoca stava invadendo il mercato). Il fantasma di Bunuel aleggia sulla pellicola, ricca di momenti surreali e ammantata di un evangelismo blasfemo. L'ironia e lo humour nero accompagnano l'odissea di Dorothea e il film viene ad essere un'analisi inesorabile sulla nevrosi ossessiva del sesso nella società contemporanea. Jodorowsky, Arrabal e Topor conferirono alla pellicola il Gran Premio del Gruppo Panico ed elogiarono il risultato surrealista ottenuto da Fleischmann, riallacciandolo alle teorie di Pasolini e Breton. L'attrice Anna Henkel, che in seguito reciterà nel "Novecento" di Bertolucci, si mette in gioco totalmente e senza mai perdere la purezza, vittima in un viaggio iniziatico attraverso l'oscurità, la bizzarria, l'osceno e il perverso che regnano nella malata società contemporanea.

26/11/07

I cospiratori del piacere

Spiklenci slasti
di Jan Svankmajer
(1996 CEC 75’)

"Il mondo si divide in due categorie di diversa ampiezza... quelli che non hanno mai sentito parlare di Jan Švankmajer e quelli che hanno visto i suoi lavori e sanno di essersi trovati faccia a faccia con un genio."
Il trentesimo film e terzo lungometraggio di Jan Svankmajer, surrealista ceco, rappresenta una combinazione di personaggi viventi e d’animazione classica - senza alcuna elaborazione al computer. Una cavalcata esilarante e affascinante alla scoperta degli infiniti modi in cui i suoi eccentrici e feticistici personaggi perseguono la soddisfazione dei loro piaceri.
Jan Svankmajer nasce nel 1934 a Praga, città dove è ambientato questo film, e nel 1964 realizza il suo primo film d’animazione : già mescolando attori, maschere, e animazione in una accumulazione surrealista che da allora costituisce lo stile uguale a nessun altro di Svankmajer. Tuttora quasi completamente sconosciuto in Italia, si mette in luce vincendo l’Orso d’argento a Berlino nel 1987 con "Alice", primo suo lungometraggio d’animazione, tratto da "Alice nel paese delle meraviglie" di Lewis Carrol.

Interrogato sul film Svankmajer dichiara: "Questo film mescola dei generi dell’immaginario umano così differenti come il grottesco, il gotico, il fantasma e anche la magia, fino alla psicanalisi. Il genere grottesco del film non implica in nessun modo una recitazione grottesca da parte degli attori. Al contrario, è nella storia stessa e nella situazione che si sente il grottesco. Così, la recitazione degli attori sarà semplicemente “realista” e in nessun caso essi reciteranno sopra le righe in modo che le “attività singolari” dei personaggi siano il risultato della loro totale ed incontrollabile devozione al principio del piacere."

Discorso tenuto alla prima del film dal regista:
" Signore e signori,
ci sono ancora molte persone, e questo anche nei circoli cosiddetti specialisti, che confondono l'arte col frustino castigamatti. Essi sono infatti convinti che l'arte debba educare, che la vera arte debba dunque migliorare l'individuo. Per questo una serie di artisti, per riuscire a soddisfare tale richiesta essenzialmente addomesticante, imbottisce i propri film di quello che nelle terre boeme viene familiarmente definito "odore d'umanità". Posso però rassicurarvi che nel mio film non troverete nulla di simile. Se infatti l'arte ha un qualche senso, allora é quello di rendere l'uomo più libero, é quello di liberarci proprio da quelle abitudini addomesticanti che fin dall'infanzia ci vengono introiettate dall'educazione civilizzante. Come sappiamo con Sigmund Freud, l'educazione é strumento del principio di realtà, mentre l'arte é frutto del principio del piacere. E questi due principi si comportano l'un verso l'altro come cane e gatto, come acqua e fuoco, come repressione e libertà. Proprio di questo parla il film. A parte il fatto che si tratta del primo film erotico nel quale non vi siano scene di sesso, "I cospiratori del piacere" é soprattutto un film sulla libertà. Sulla libertà in senso assoluto, così come l'intendeva ad esempio il divin marchese de Sade.
Il tema della libertà, l'unico per cui valga ancora la pena di prendere in mano la penna, il pennello o la cinepresa, é in questo film sviluppato nella forma di un grottesco muto noir. Ritengo che l'umorismo nero e oggettivo, la mistificazione e il cinismo della fantasia siano mezzi più adeguati a rendere il carattere basso della nostra epoca che non il già menzionato, ipocrita, odore d'umanità."

Zoë Lund

Zoë Lund

Folgorante icona, Zoë Lund, ricordata universalmente come memorabile protagonista de "L'Angelo della Vendetta" di Abel Ferrara (col nome di Zoë Tamerlis) e successivamente sceneggiatrice (e attrice in una breve accecante sequenza) dell'illuminante "Il Cattivo Tenente".
Una vita breve e intensa, vissuta consapevolmente sulla propria pelle e sull'orlo del precipizio, tra Eros e Thanatos, tra peccato e redenzione, tra droga e filosofia.
Zoë nasce nel 1962 e giovanissima si lega a movimenti studenteschi di protesta come figura teorica e organizzativa di primo piano, mentre a diciasette anni diventa assistente e compagna del filmmaker e critico Edouard (Yves) de Laurot. Il suo talento musicale in quegli anni é impressionante, ma lei ritiene che sia il cinema l'arte che le può permettere di veicolare ed esprimere in maniera decisiva le proprie rivoluzionarie teorie e convinzioni. Le cambierà la vita l'incontro con altri due geniali outsiders quali Abel Ferrara e Nicholas St. John, tale splendida collaborazione sfocierà nel film "L'Angelo della Vendetta" (titolo originale "Ms 45", dal calibro della pistola della protagonista), nel quale Zoë interpreta una timida sartina muta Thana (il nome é già tutto un programma) immersa in una New York infernale.

Stuprata due volte nel corso della stessa giornata, la ragazza, sconvolta e disperata, riuscirà ad uccidere il secondo violentatore (il primo é interpretato dallo stesso Ferrara) e, trasformata dalla disumana ferocia subita, se ne vendicherà barbaramente, facendolo letteralmente a pezzi, poi sparsi per la città in sacchetti di plastica o trasformati in macinato per il cagnolino della vicina ficcanaso. Con la pistola dell'aggressore, la donna si trasformerà in una serial killer, giustiziera notturna senza scrupoli, decisa ad eliminare il genere maschile dalle strade della putrescente Grande Mela.
La realtà di New York mostrata nella pellicola di Ferrara é impregnata di degradazione, squallore e violenza indicibili e quella della protagonista, violata e oppressa nella sua iniziale purezza, é una delle poche reazioni plausibili. La straordinaria e bellissima Zoë nella parte della muta Thana ci regala un'interpretazione indimenticabile, grazie al suo incredibile lavoro sulle espressioni facciali e i movimenti corporei, riuscendo a comunicare sia l'innocenza che la furia selvaggia. Il suo personaggio é dotato di un incredibile magnetismo che, ricordando il film, rimane vivo nel tempo. In un delirante ballo di Halloween finale si veste da suora, con reggicalze, rossetto fuoco e pistola e fa strage del genere maschile tout court. Proprio in questa sequenza vi è l'apice del film, in quel mix di slow-motion, musica ipnotica, sangue e ironia blasfema.

La vendetta che si consuma nel film, come sottolinea Zoë nelle interviste, non é solo quella per la libertà della donna contro una violenta società maschilista, ma anche quella per la libertà della fragile handicappata, della lavoratrice precaria e ricattabile, fino alla lotta per la libertà di ogni individuo in una società feroce ed aggressiva.
Grazie alla notorietà che il film le regala, Zoë si trasferisce a Los Angeles col suo compagno, che si spaccia furbescamente per Abel Ferrara (il vero Abel racconta che quando arrivò ad Hollywood, anni dopo, molti pensavano di averlo già conosciuto).
I due cercano finanziamenti per gli innumerevoli progetti dell'attrice, arrivando a incontrare tra gli altri Francis Ford Coppola e Warren Beatty, ma la sofferenza e la pulsione autodistruttiva divorano Zoë, che cerca sempre più conforto e fuga nelle droghe (descriverà, in seguito, queste esperienze nel film "The Self-Destruction of Gia" su Gia Giarandi).
In questo periodo Zoë fa la modella, ma vanno anche ricordate la sua doppia interpretazione nel film "Special Effects" del 1984 (diretto da Larry Cohen) e la partecipazione al documentario "Heavy Petting", nel quale diversi personaggi famosi, tra cui William Burroughs e Allen Ginsberg, raccontano le loro prime esperienze sessuali.
Zoë scrive, nel frattempo, numerosi racconti, romanzi e addirittura quindici sceneggiature, sempre incentrati sui temi della colpa e della possibile redenzione, ma é assolutamente incapace di chiudere le lunghe trattative per farli pubblicare.
Nel 1992 scrive la sceneggiatura del capolavoro ferrariano "Il cattivo tenente", in cui interpreta anche una tossicodipendente spacciatrice, rendendo evidente l'assunto scorsesiano che "i peccati si scontano per le strade e non in chiesa".
Nel 1993 scrive, dirige e interpreta un brevissimo corto intitolato "Hot Ticket".
La sua irriducibile diversità la porta ad autodistruggersi, muore infatti a Parigi all'età di 37 anni, a causa di un infarto per abuso di cocaina.

"I vampiri sono fortunati. Si nutrono degli esseri che trovano. Invece noi divoriamo noi stessi. Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo arrivare per potere andar via. Dobbiamo succhiarci fino in fondo. Dobbiamo divorarci da soli, finché non resta nient'altro che la fame. Noi diamo, diamo e diamo come pazzi. Non credo che tutto questo abbia senso. Non significa niente. Gesù ha detto: settanta volte sette, nessuno riuscirà mai a capire perché l'hai fatto, ti abbiamo già dimenticato il mattino dopo. Peccato."
(Zoë Lund in "Il Cattivo Tenente")

25/11/07

Indisciplina

L'ubriaco si lascia alle spalle le case stupite.
Mica tutti alla luce del sole si azzardano
a passare ubriachi. Traversa tranquillo la strada,
e potrebbe infilarsi nei muri, ché i muri ci stanno.
Solo un cane trascorre a quel modo, ma un cane si ferma
ogni volta che sente la cagna e la fiuta con cura.
L'ubriaco non guarda nessuno, nemmeno le donne.
Per la strada la gente, stravolta a guardarlo, non ride
e non vuole che sia l'ubriaco, ma i molti che inciampano
per seguirlo con gli occhi, riguardano innanzi
imprecando. Passato che c'é l'ubriaco,
tutta quanta la strada si muove più lenta
nella luce del sole. Qualcuno che corre
come prima, é qualcuno che non sarà mai l'ubriaco.
Gli altri fissano, senza distinguere, il cielo e le case
che continuano a esserci, se anche nessuno li vede.
L'ubriaco non vede né case né cielo, ma li sa,
perché a passo malfermo percorre uno spazio netto
come le strisce di cielo. La gente impacciata non comprende
più a cosa ci stiano le case, e le donne non guardano gli uomini.
Tutti hanno come paura che a un tratto la voce rauca
scoppi a cantare e li segua nell'aria.
Ogni casa ha una porta, ma é inutile entrarci.
L'ubriaco non canta, ma tiene una strada
dove l'unico ostacolo é l'aria. Fortuna che di là non c'é il mare,
perché l'ubriaco camminando tranquillo, entrerebbe anche in mare
e, scomparso, terrebbe sul fondo lo stesso cammino.
Fuori, sempre, la luce sarebbe la stessa.
(Cesare Pavese)

Tiger!

Tiger! Tiger! Burning bright
in the forests of the night,
what immortal hand or eye
could frame thy fearful symmetry?
In what distant deeps or skies
burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?
And what shoulder, and what art,
could twist the sinews of thy heart?
And when thy heart began to beat,
what dread hand? and what dread feet?
What the hammer? What the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? What dread grasp
dare its deadly terrors clasp?
(William Blake)

Ciò che é sulla punta della forchetta

In tutta la mia opera ricorre il tema della mutazione.
Che é poi il tema dell'identità, della sua fragilità.
All'inizio di quasi tutti i miei film i personaggi danno
l'impressione di aver fiducia in sé stessi, di sapere dove
stanno andando. C'é in essi una sorta di arroganza:
credono che il futuro sarà esattamente come essi hanno previsto.
Ognuno di noi, del resto, ha questa forma di arroganza.
Ma quando interviene l'imprevisto, l'idea che noi avevamo della
realtà si rivela diversa dalla realtà stessa, ed ecco il caos,
il disastro. Allora il nostro senso della stabilità vacilla,
assieme alla nostra fiducia in essa.
Questo processo si ritrova in ogni mio film.
Come in "Naked Lunch", io cerco sempre di mostrare quel momento
unico e bloccato in cui ciascuno vede ciò che c'é sulla punta
della sua forchetta: cioé quel momento in cui ci si rende
conto che la realtà non é che una possibilità, debole e fragile
come tutte le altre possibilità.
(David Cronenberg)

24/11/07

Nati Ciechi

"Io volevo sapere una cosa: credete voi in Dio o no?" disse Stavrogin guardandolo con durezza" " Io credo nella Russia, nella sua ortodossia...Io credo nel corpo di Cristo...Io credo che la sua nuova venuta accadrà in Russia...Io credo..." si mise a balbettare esaltato Satov.
"E in Dio? in Dio?" "Io...io crederò in Dio"
(Da "I Demoni" di Dostojevski)
Cosa aggiungere a questo? Qui é genialmente colta quella condizione di sgomento spirituale, quella carenza e quella deficienza dell'anima che sta diventando il carattere più costante dell'uomo moderno, il quale può essere definito un impotente spirituale. Il bello é celato agli occhi di coloro che non cercano la verità, o per i quali essa é controindicata. Questa profonda mancanza di spiritualità di colui che non percepisce, ma giudica l'arte, il suo rifiuto e la sua mancanza di disponibilità a riflettere sul significato e sullo scopo della propria esistenza nel significato più alto del termine, assai sovente vengono mascherate con l'esclamazione primitiva fino alla volgarità: "Non mi piace!", "Non mi interessa!".
Questo é un argomento a cui é impossibile controbattere, ma spesso assomiglia alla reazione di un nato cieco, al quale si sforzano di descrivere un arcobaleno.
Analogamente l'uomo contemporaneo, incapace di meditare sulla verità, rimane semplicemente sordo alla sofferenza, attraverso la quale é passato l'artista per condividere con gli altri la verità da lui attinta.
(Andrej Tarkovskij)

23/11/07

Al Colosseo


Sia sbranato al colosseo, sia spellato al colosseo,
sia scannato al colosseo, sia squartato al colosseo
sia incornato al colosseo, sia sbudellato al colosseo
sia disossato al colosseo,in fricassea, sia servito in fricassea,
riceva il ferro al colosseo,hoc habet hoc habet hoc, hoc habet hoc habet hoc,
la legge della curva... la legge della curvaaa...two Rome are fallen
Si assassinin gli assassini al colosseo, sian sventrati gli innocenti al colosseo
i neonati sian soldati al colosseo, il Senato sia scuoiato al colosseo

si divorino le fiere al colosseo, chi ha predicato sia impalato al colosseo,
al colosseo chi ha taciuto sia mietuto al colosseo, sia bevuto dalla rena al colosseo, sia crocifisso al colosseo,sia disunghiato al colosseo in naumachia sia affogato in naumachia, in allegria riceva il ferro al colosseo hoc habet
hoc habet hoc, sia fracassato al colosseo lo si bruci al colosseo,
hoc habet hoc habet hoc a gran spadate al colosseo, sia fatto a brani al colosseo la folla salti in aria al colosseo, a brano a brano al colosseo hoc habet hoc, finchè non arrivino i barbari, finchè non arrivino i barbari,hoc habet hoc la legge della curvaa...la legge della curvaaa, finchè non arrivano i tartari, finchè non arrivano i tartari, al colosseo!
(Vinicio Capossela)

Proprio così e non altrimenti

Il senso della poesia ha molto in comune con il senso per il misticismo.
E' il senso dell'originale, del personale, dell'ignoto,
dell'arcano, di ciò che deve essere rivelato, del fortuito-necessario.
Rappresenta l'irrapresentabile. Vede l'invisibile, sente il non sensibile, etc.
La critica della poesia è un controsenso. E' già difficile distinguere,
unica distinzione possibile, se alcunché sia o non sia poesia.
Il poeta é veramente privato dei sensi, in compenso in lui
si trova tutto. Egli rappresenta nel senso più vero
il soggetto-oggetto - animo e mondo. Di qui l'infinità di una buona poesia, l'eternità. Il senso della poesia é molto affine con quello
della profezia e in genere col senso religioso, col senso del vate.
Il poeta ordina, unisce, sceglie, inventa
- e lui stesso non riesce a comprendere perché proprio così e non altrimenti.
(Novalis)

22/11/07

Scorpio Rising

Scorpio Rising
di Kenneth Anger
(1964 USA 29’)
con Bruce Byron, Johnny Sapienza, Frank Carifi, John Paione, Ernie Allo, Barry Rubin, Steve Crandell, Bill Dorfmann, Johnny Dodds, Jim Powers.

Caposaldo del cinema underground americano: in tredici episodi, a metà strada tra la fiction e il documentario, il film descrive il raduno d'un clan di motociclisti alla vigilia d'una corsa in cui uno dei centauri muore. Nel mirabolante montaggio che fonde il procedimento analogico con quello sostitutivo vengono sviscerati i riti sacrificali, i simboli esoterici e gli ambigui ideali dei motociclisti.
Sorprendentemente per l’epoca, l'autore rende il film impregnato di valenze omo-erotiche e tanatologiche, facendo deflagrare sullo schermo, esplicitamente, l’omosessualità dei suoi protagonisti, masochisticamente connivente con la loro violenza paranazista e i loro bizzarri rituali iniziatici.
I temi portanti della pellicola sono le moto (cromato feticcio da idolatrare), il sadomasochismo sessuale (pulsione irresistibile che scaturisce dalla nevrosi profonda dell’autore), la cultura pop (pungente è la critica alla merce elevata a ideale/feticcio e alla omologante cultura di massa, che si ricollega alle teorie di Andy Warhol) e il rock’n’roll. La musica permette ad Anger di rivoluzionare il linguaggio cinematografico grazie ad un montaggio scandito secondo il ritmo travolgente di una colonna sonora intessuta di scatenati rock’n’ roll, niente meno che la hit parade dell’estate 1962. Proprio il geniale abbinamento tra immagini e musica feconda la mente dello spettatore e genera in quest’ultimo un’irrefrenabile voglia di fare cinema, per esempio l’estetica e il modo di filmare di MTV origina proprio da qui, purtroppo con una efficacia molto annacquata.
Le imprevedibili metafore visive e grafiche si succedono in una continua contrapposizione di immagini banali e scandalose tra cui l’icona Marlon Brando centauro ne “il selvaggio”, alcuni poster del mitopoietico James Dean, uno scheletro con la parrucca da donna sulla copertina di “Life” (a rappresentare la gioventù americana dell’epoca), stucchevoli tavole a fumetti, blobbanti immagini televisive, simboli nazisti, accenni all’occultismo, e in modo demistificante e blasfemo l’abbinamento del film religioso “The road to Jerusalem” ad esplicite rappresentazioni omosessuali...
In questa sequenza esplosiva notevole é l’influenza delle teorie di Aleister Crowley, fondatore qualche decennio prima di una religione eretica e neopagana, la cui amalgama era data dal motto “Fai quello che vuoi”. Anger ribadisce e rinforza la denuncia dello stesso Crowley verso l’era cristiana ritenuta masochista, sacrificale e tendente alla morte.
A livello di influenze cinematografiche il cineasta, come nelle sue opere precedenti (“Fireworks” del 1947 e “Inauguration of a pleasure dome” del 1954), si rifà alle teorie di Eisenstein e alle atmosfere visive dei film di Joseph Von Sternberg, veri e propri numi tutelari per Anger.
Il titolo del film fa riferimento al segno zodiacale del protagonista (e del regista) e ad un’opera teatrale “Orpheus Descending” incentrata sulla decadenza dell’artista nella società contemporanea, con protagonisti centauri e crepitanti motociclette.
Dopo la presentazione a New York, il film dovette subire un processo per oscenità in California, che si concluse con la condanna di Anger.

“Il fim è uno specchio di morte presentato alla cultura americana. Scorpio incarna tutto quello che c’é di negativo nella sessualità: il narcisismo, la falsa virilità, il sadomasochismo derivante dall’impotenza, la frustrazione sessuale che cerca di liberarsi nella violenza. I deliri di grandezza che dissimulano l’odio di sé. E ciò che è ancor peggio: l’esistenza dell’emulo improvvisato di un ideale maschile, eternamente condannato al disadattamento, tanto che solo la morte potrà appagarlo. Tutto in un contesto mitologico e profetico che fa dell’apoteosi della negazione il preludio di una nuova era di autonomia personale e liberazione sessuale.”
(Kenneth Anger)

La musica

La musica è la migliore consolazione già per il fatto che
non crea nuove parole. Anche quando accompagna delle
parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole.
Ma il suo stato più puro é quando risuona da sola.
Le si crede senza riserve, poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti.
Il suo fluire é più libero di qualsiasi altra cosa che sembri umanamente
possibile, e questa libertà redime. Quanto più fittamente la terra si popola,
e quanto più meccanico diventa il modo di vivere, tanto più indispensabile
deve diventare la musica. Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà
di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente
e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante
della vita intellettuale futura. La musica é la vera storia
vivente dell'umanità, di cui altrimenti possediamo solo parti morte.
Non c'é bisogno di attingervi, poiché esiste già da sempre in noi,
e basta semplicemente ascoltare, perché altrimenti si studia invano.
(Elias Canetti)

21/11/07

La postmodernità

Noi siamo soltanto degli epigoni. Gli avvenimenti, le
scoperte, le visioni sono quelle dagli anni 1910 agli
anni 1930. Viviamo come degli stanchi chiosatori di quell'epoca
furiosa in cui ogni invenzione della modernità (e il
lucido presentimento della sua fine) si è fatta in un
linguaggio che conserva la freschezza dello stile. La massima
intensità è dietro di noi. Il minimo di passione e di
illuminazione intellettuale é davanti a noi. E' come un
movimento generale di entropia del secolo, la cui energia
iniziale si dissipa lentamente nelle ramificazioni
sofisticate delle rivoluzioni strutturali, pittoriche, ideologiche,
linguistiche, psicanalitiche - dove la configurazione
finale, quella della "postmodernità", mostra la fase più
degradata, la più fittizia, la più eclettica, feticismo
in briciole di ogni idolo e dei segni più puri che l'hanno preceduta.
Anche la grande luce degli anni 1960/1970, vista con
un po' di distacco, sarà stata solo un episodio nello
svolgimento involutivo del secolo, in termini di idee-forza.
Un presagio tuttavia.
La sorpresa potrà venire da un fatto nuovo?
Non sappiamo nulla di questo, perché l'archivio e l'analisi
sono attrezzi del crepuscolo.
(Jean Baudrillard)

20/11/07

Il canto della tenebra

La luce del crepuscolo si attenua:
inquieti spiriti sia dolce la tenebra
al cuore che non ama più!
Sorgenti, sorgenti abbiam da ascoltare,
sorgenti che sanno che spiriti stanno
che spiriti stanno ad ascoltare...
Ascolta: la luce del crepuscolo si attenua
ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
ascolta: ti ha vinto la Sorte:
ma per i cuori leggeri un'altra vita è alle porte:
non c'é di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
intendi la dolce fanciulla
che dice all'orecchio: Più Più
ed ecco si leva e scompare
Il vento: ecco torna dal mare
ed ecco sentiamo ansimare
Il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
degli e l'acque è notturno
il fiume va via taciturno...
Pùm! mamma quell'omo lassù!
(Dino Campana)

L'angelo ubriaco

L'angelo ubriaco - Yoidore tenshi
di Akira Kurosawa
(1948 Giappone 98’)
con Toshiro Mifune, Takashi Shimura, Reisaburo Yamamoto, Chieko Nakakita

Primo film importante di Kurosawa (lo gira a 38 anni), vede l’esordio dell’energico Toshiro Mifune nella parte di un gangster tubercolotico e la magistrale interpretazione di Takashi Shimura nei panni di un medico alcolizzato e idealista, l’angelo ubriaco del titolo.
Ambedue immersi nell’immondo acquitrino che è la vita ai margini della società, due ribelli destinati alla sconfitta (?), ma in possesso di una profonda dignità umana. Il film è basato sul loro rapporto di attrazione e repulsione, immersi negli inesorabili bassifondi di Tokyo, uno con l’ossessione di curare ed estirpare i germi, l’altro inseguendo un’impossibile ascesa nel grembo di una spietata malavita. Due angeli perdenti in lotta contro un mondo lurido e malato in un film crudo e coinvolgente, per nulla datato. Da segnalare la sequenza dell’incubo di Matsunaga nella spiaggia, che anticipa di 10 anni la mitica scena de “Il posto delle fragole” di Bergman (la bara, il doppio...).
Kurosawa dalla parte dei reietti e dei falliti denuncia le ingiustizie e le barbarie del mondo moderno e crede fermamente che solo da questi ultimi può arrivare una trasformazione davvero radicale e senza compromessi della situazione attuale o per lo meno la speranza in un miglioramento e il ritorno a valori più propri dell’essere umano. E’ il primo di una lunga serie di capolavori del regista nipponico.

“Dopo tutto era solo un cattivo gangster...
un cane è un cane e niente può cambiarlo.”

Kapò

Kapo’
di Gillo Pontecorvo
(1959 FRA 102’)
con Emmanuelle Riva, Didi Perego, Susan Strasberg,
Laurent Terzieff, Gianni Garko, Paola Pitagora, Graziella Galvani.

Scritto dal regista con Franco Solinas dopo che avevano letto "Se questo è un uomo" di Primo Levi, Kapo’ è una parabola drammatica che, a soli 15 anni di distanza dall’orrore dell’olocausto, ha il pregio di ricostruire e riportare davanti alla troppo labile memoria degli uomini un mondo che è di sterminio, la forza di mostrare non solo la distruzione fisica ma anche la degradazione morale a cui la follia umana può portare.
La storia è quella di una giovanissima prigioniera ebrea in un lager nazista, fragile creatura immessa di colpo in un’atmosfera apocalittica, che si schiera per sopravvivere dalla parte dei nemici e accetta di diventare kapo’, cioè guardiana-aguzzina delle altre recluse. Tale è l’abiezione a cui può arrivare una creatura umana per colpa del terrore, della paura, della fame e della miseria. Un punto di non ritorno: la sopravvivenza solo a patto della trasformazione.
Nel 1959 una tale protagonista era inconsueta e già di per sé spiazzante, quello dei collaborazionisti un tema a quei tempi rimosso. Inoltre il film di Pontecorvo ha un altro pregio quando sottolinea come esemplare non la forza morale e la resistenza della protagonista (operazione tipica dei film hollywoodiani pieni di eroi integerrimi), ma la sua debolezza e la sua fallacia, tutt’uno con la sua innocenza e il suo candore.
Ovviamente è un film e costa molti soldi alla produzione, per cui ha una doppia anima artistica e commerciale insieme, da questa convivenza derivano l’aspetto documentaristico duro e rigoroso da una parte e le concessioni al pubblico per rendere il film più digeribile dall’altra.
Proprio per questo motivo gli si perdona, in alcune parti, un eccesso di sentimentalismo, che senz’altro ha aiutato il film ad arrivare e a colpire l’immaginario del pubblico, tanto che il termine kapo’ è diventato di uso comune.
Il problema del linguaggio è sempre cruciale, specie se si ha un obiettivo di denuncia.
Il pervicace tentativo del regista di coniugare ideologia e spettacolo nei suoi film ha sempre irritato non poco la critica, non generosa con i suoi film (fatta eccezione per "La battaglia di Algeri", ma come si potrebbe stroncarlo?).
A questo proposito "Kapo’" ha dato origine ad una violenta stroncatura da parte di Jacques Rivette (Cahiers du Cinéma n. 120, giugno 1961), famoso esponente della Nouvelle Vague, che bollò il film come abietto scrivendo: “Guardate l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si toglie la vita, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo”.
La critica e il cinema della “nouvelle vague” sapevano essere spietati, nel mettere al centro una “moralità dello sguardo” assoluta, dove anche un movimento della macchina da presa aveva sempre un senso, una ragione. La scelta del punto di vista non è mai casuale, e Rivette e la Nouvelle Vague di Godard, Truffaut, Rohmer e compagni lo gridavano forte.
Attualmente un’etica dello sguardo così pura fa quasi sorridere, assuefatti come siamo a spietate immagini televisive che non conoscono il rispetto per la morte altrui, ma anzi vanno a cercare i particolari morbosi in nome di un’enigmatica audience e di un pubblico sempre più imbarbarito.
Concludendo il carrello in avanti è sicuramente un errore, ma il film è in ogni caso da vedere giacché si pone come memoria di questa degradazione umana diventando un monito e al contempo un’esecrazione e condanna al nazi-fascismo. Perenne.

Ultrahorror 2

Nel percorso verso il limite indicibile del rappresentabile ecco altri cinque film da morire!

1) Last House on Dead End Street
di Peter Watkins (1977 USA 78')

http://italian.imdb.com/title/tt0076295/

2) The Untold Story
di Herman Yau (1993 Hong Kong 96')

http://italian.imdb.com/title/tt0103743/

3) Subconscious Cruelty
di Karim Hussain (1999 CAN 92')

http://italian.imdb.com/title/tt0166370/

4) Divided into Zero
di Mitch Davis (1999 CAN 34')

http://italian.imdb.com/title/tt0212919/

5) Roadkill: The Last Days of John Martin
di Jim Van Bebber (1994 USA 15')

http://italian.imdb.com/title/tt0126642/

19/11/07

Marika degli Inferni

Mariken van Nieumeghen
Marika degli Inferni
di Jos Stelling (1974 OLA 84')
con Ronnie Montagne, Sander Bais, Alida Sonnega,
Diet Van de Hulst, Leo Koenen

Ecco un capolavoro perduto (almeno in Italia), opera prima di un regista sempre illuminato e illuminante, l'olandese Jos Stelling (ricorderete la sua gemma "Lo scambista"). Il film attualmente è reperibile solo sul mercato russo senza alcun sottotitolo (se non quelli russi alquanto indigesti per me).
Questa pellicola vinse a Cannes nel 1975 il premio come "Miglior Opera Prima" e colpì a fondo il fervente immaginario dell'epoca, tanto che non si esitò a considerarlo un film maledetto e paragonarlo a "La Montagna Sacra" di Jodorowsky.
Il film è tratto da un mistero medievale, scritto in versi e prosa nel '500 da un Anonimo e attualmente ancora rappresentato, ogni anno, a Nimega ove esiste anche una statua dedicata a Marika.

La trama narra l'odissea di una giovane contadina Marika, severamente educata dallo zio sacerdote, che girovaga nelle Fiandre del XV secolo devastate dalla peste e dalle carestie. Giunta faticosamente a Nimega, scopre la città dominata dalla confusione e dalla fame e trova la zia Agnese morta suicida per impiccagione.
La speranza di sopravvivere è flebile, ma la beffarda sorte le invia come protettore un attore con maschera da caprone e guercio da un occhio, di nome Muenen (nei misteri medievali solitamente è l'epiteto dato al Maligno). Accettando la protezione Marika fa un patto col diavolo e vende eternamente la sua anima. Diventa così attrice e girovaga con Muenen tra mille angoscianti avventure fino ad Anversa. Ma anche qui la peste è la padrona assoluta della città e Marika viene violentata da alcuni vagabondi che, per paura della vendetta del mefistofelico Muenen, arrivano a uccidere uno di loro. Marika in una progressiva discesa negli inferi si ritroverà accusata dagli abitanti di stregoneria, ma la beffarda sorte le consentirà di mettersi in fuga confondendosi con gli appestati. Al suo posto verrà arsa sul rogo Berta, la locandiera della città. A questo punto Marika vagherà selvaggia tra le campagne fino ad incontrare una bizzarra compagnia di "attori girovaghi"...
Figurativamente il film è sconvolgente e ricrea su pellicola in maniera esemplare le immagini e le angosce delle tele demoniache di Bosch e Bruegel, veramente un film apocalittico.
Proprio per tale motivo consiglio comunque l'acquisto del dvd in russo (sic!)...lo suggeriamo in massa (si fa per dire...) alla Raro Video?

L'Essere dalle ali di velo

Ho visto a volte, in fondo a un teatro dozzinale
tutto infiammato dall'orchestra sonora,
una fata accendere in un cielo infernale
una miracolosa aurora;
ho visto a volte in fondo a un teatro dozzinale
un Essere fatto solo di luce, oro e velo
atterrare il gigantesco Satana;
ma il mio cuore, da cui l'estasi è assente,
é un teatro dove sempre si attende
e sempre invano, l'Essere dalle ali di velo!
(Charles Baudelaire)

Aceto arcobaleno

Manca una donna stasera,
una che poggi la mano sul
braccio raggiungendoci alle
spalle mentre pensiamo di
essere soli.
(Erri De Luca)

18/11/07

Split

Split
di Chris Shaw (1989 USA 85')
con Timothy Dwight, Joan Bechtel, John J. Flynn,
Chris Shaw, John Martel

Uno dei primi film di science-fiction ad utilizzare la computer graphic, precursore dimenticato del movimento cyberpunk cinematografico. Molte sono le scene psichedeliche ottenute con buoni risultati, grazie ad uno dei primi impieghi di tecniche di grafica vettoriale al computer.
Il protagonista è uno "Starker" (!!!)in un mondo dominato da un implacabile governo simil-Grande Fratello immaginato da Orwell nel suo "1984". Il controllo su ogni cittadino è totale, venendo annullata di conseguenza ogni individualità, le direttive globali sono quelle dell'accumulazione e della procreazione. Il nostro eroe è l'unico a non esistere, non essendo catalogato e vivisezionato negli implacabili computer governativi. Il suo aspetto è quanto mai malsano e il suo obiettivo è quello di diffondere attraverso i rifornimenti d'acqua, tra la popolazione robotizzata, una droga che permetterà di riaprire gli occhi agli automi viventi. Il risveglio degli uomini robot permetterà al mondo di squarciare il velo dell'illusoria realtà per consentire alla libertà data dall'individualismo di riemergere. La ricerca dell'uomo da parte dello spietato governo sarà spasmodica proprio per la paura di essere di fronte ad una venuta di un nuovo Cristo.
Ricco di immagini e suoni affascinanti e per l'epoca sperimentali, il film perde un po' di smalto per quanto riguarda la bolsa recitazione e il rozzo montaggio non sempre avvincente. Da segnalare i folgoranti titoli di testa che da soli valgono la visione.

Libri Rivelazione

Ci sono libri che si posseggono da vent'anni senza leggerli,
che si tengono sempre vicini, che uno porta con sé di
città in città, di paese in paese, imballati con cura, anche
se abbiamo pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento
di toglierli dal baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per
intero anche una sola frase. Poi, dopo vent'anni, viene un momento
in cui d'improvviso, quasi per una fortissima coercizione, non si può
fare a meno di leggere uno di questi libri d'un fiato, da capo a fondo:
é come una rivelazione. Ora sappiamo perché lo abbiamo trattato
con tante cerimonie. Doveva stare a lungo vicino a noi, doveva
viaggiare, doveva occupare posto, doveva essere un peso,
e adesso ha raggiunto lo scopo del suo viaggio, adesso si svela,
adesso illumina i vent'anni trascorsi in cui è vissuto, muto, con noi.
Non potrebbe dire tanto se per tutto quel tempo non fosse
rimasto muto, e solo un idiota si azzarderebbe a credere
che dentro ci siano state sempre le medesime cose.
(Elias Canetti)

17/11/07

La Sciamana

Szamanka
di Andrzej Zulawski (1996 POL/FRA/SVIZ 113')
con Iwona Petri, Boguslaw Linda, Pawel Delag,
Agnieszka Wagner, Alicja Jachiewicz

In Italia Zulawski non ha mai avuto fortuna critica, l'ennesima occasione persa, perché ci troviamo di fronte senza ombra di dubbio ad un cineasta visionario e innovatore, profondo indagatore dell'anima umana, uno dei pochi filosofi che hanno praticato l'arte cinematografica.
L'affacciarsi sull'abisso che è la natura umana è però portato nelle sue pellicole alle estreme conseguenze, tutto ciò crea disagio e malessere negli spettatori, letteralmente assaliti alla giugulare dalle brucianti pellicole. Il regista non ha paura di osare (a volte ad un passo dal ridicolo involontario) e colpisce invariabilmente nel segno (ricordo ancora l'allucinante emicrania che mi colse alla fine della visione della versione integrale del suo "Possession", opera sorprendente e depistante, esperienza di visione unica e irripetibile).
I suoi film sono affreschi allucinati, viscerali ed estremamente intensi in cui nulla è concesso allo spettatore e alla piacevolezza di visione, il corpus della sua opera viene ad essere un'escrescenza scomoda e maledetta nella storia del cinema, la sua scelleratezza e isteria creativa lo avvicinano a certe azioni autodistruttive degli artisti di video-arte più estremi. I suoi film alternano momenti di delicatezza assoluta ad altri di folgorante delirio.
Il suo è un cinema faticoso per lo spettatore, apparentemente assurdo, spesso doloroso e talora insostenibile, ma spesso capace di concedere una strana catarsi resuscitante.
La padronanza nell'uso della telecamera a mano (oltre che della steadycam) e del linguaggio cinematografico sono impressionanti (straordinarie le carrellate nervose compiute attorno alle sue isteriche creature). La sua personalissima ricerca sulla recitazione ha prodotto risultati sbalorditivi (chi non ricorda Isabelle Adjani, realmente e visibilmente posseduta in "Possession"...l'attrice rischiò di impazzire sul set...), con gli attori portati a entrare in simbiosi dolorosa con il cuore dei rispettivi personaggi.
Nel 1996 Zulawski, dopo lungo esilio, ritorna nella Polonia repressa dopo la caduta del regime comunista per dirigere un soggetto scritto da una giovane polacca, Manuela Gretkowska, giudicato unanimemente dalla critica ufficiale come oltraggioso verso i valori cristiani e pornografico.
Alla stazione di Varsavia il protagonista Michal, giovane professore di Antropologia, sta salutando il fratello prete che è in partenza. La conversazione fra i due viene interrotta da una studentessa misteriosa ed estremamente disinvolta, senza nome per tutto il film, che si avvicina enigmatica ai due, per poi scoprirsi interessata all'appartamento che il sacerdote lascia libero e che i due hanno intenzione di affittare. Durante la visita all'appartamento, Michal e la ragazza quasi senza parlarsi, come posseduti da forze occulte, fanno l'amore in modo violento. Lo stesso giorno Michal e i suoi studenti scoprono la mummia di un uomo che dovrebbe risalire a tremila anni fa. Michal identifica il corpo come quello appartenente ad uno sciamano di una tribù e cerca di scoprirne le cause della morte.
La ricerca, che diventa ossessiva, sulla vita del presunto sciamano e l'intrigante, e allo stesso modo ossessiva, relazione con la ragazza, lentamente sconvolgeranno la mente dell'uomo.
Lo sciamano per il protagonista diverrà inanzitutto una creatura dell'inconscio, un'entità soprannaturale a cui affidare il proprio castigo.
Gli abitanti di Varsavia e i luoghi stessi (una torbiera, una stamberga di periferia, uno squallido ospedale pediatrico), immortalati attorno ai due protagonisti, sono di uno squallore e di una mostruosità indicibile (evidente urlo di una Polonia lacerata dalla Storia).
Il cammino dei corpi degli attori ripresi nel film è instancabile, tortuoso e zigzagante, incurante dell'urtare contro i muri, spostandosi senza sosta alla impossibile ricerca di un'agognata quiete.
L'erotismo tra i due protagonisti non è che l'unione sofferente di due essere umani lividi e spenti, la messa in scena degli amplessi è costruita dal regista rispettando ben precisi rituali alchemici, da qui la particolarità che i corpi si compenetrano a formare una croce.
Nel malinteso finale il professore toccato dalla notizia del suicidio del fratello prete (e dalla sua turbolente esistenza) deciderà di seguirne il cammino spirituale alla ricerca di una vagheggiata remissione dei peccati. Ma tutto questo porterà la donna in balia a forze irrazionali e arcane (forse reincarnazione dello sciamano), dopo aver posseduto il corpo del malcapitato, a possederne, letteralmente, anche il cervello.
Da segnalare la potente e ipnotica colonna sonora percussiva di Andrzej Korzinjki.

"Il conflitto e la violenza sono i temi ricorrenti nella sua opera. Questo stato conflittuale è un elemento motore del suo processo creativo e le è indispensabile?"
"I conflitti e le violenze dei miei film sono dei riflessi piuttosto palesi dei conflitti e delle violenze che accadono nel mondo. Sono sensibile alla violenza e alla cattiveria delle cose. Il privilegio di poterle mostrare sullo schermo è un mezzo per esorcizzarle. Non si tratta di urlare sempre e ovunque. E' molto più complicato dei sospiri nei film di Rohmer...E' la realtà che è violenta. Certi studi accusano il cinema di provocare la violenza nei giovani. Io risponderei diversamente. Qualsiasi cosa può generare la violenza fra la gente, non per forza il cinema. E' meglio secondo me vedere la violenza sullo schermo che vederla uscendo dalla sala..."
"Anche il rapporto con il corpo occupa un posto molto importante nella sua opera..."
"Sa, io credo che noi siamo costruiti su questi due poli, lo spirito e il corpo, che l’uno senza l’altro non avrebbero alcun senso e nemmeno esisterebbero. Fin dall’alba dei tempi si è tentato di dividere l’uomo in due parti, ci dicevano che lo spirito è puro e che il corpo è macchiato. Io penso che l’uno sia il fondamento dell’altro e viceversa. Prendiamo ad esempio le ricerche sull’infinitamente piccolo, nel campo della materia, che sono arrivate a un punto davvero stupefacente. Il più piccolo elemento che è stato scoperto finora non ha nessuna caratteristica di ciò che chiamiamo materia. Non ha peso, non ha movimento, non esiste fintanto che non lo si guarda. E’ in un certo senso puro spirito. E questo ci mostra quanto ancora sia incomprensibile il campo dei legami tra il corpo e l’anima."
(Andrzej Zulawski)

"Questa dissacrazione dei tabù, questa trasgressione causa lo shock che lacera la maschera, permettendoci di offrire il nostro essere nudo a qualcosa di indefinibile, ma che contiene Eros e Charitas."
(J. Grotowski)